Nella sua casa-studio di Hoboken John Sayles siede al computer con una tazzona di caffè a fianco, per scrivere gli ultimi dettagli del pilot di una nuova serie dal titolo Dr. Del in cui è stato coinvolto dai produtttori Katie Jacobs, Nick Wechsler e John Hawkes, e che verrà girata nelle prossime settimane in California, nella San Fernando Valley. Capelli bianchi ma stessa statura colossale di un tempo e occhi azzurri penetranti, l’autore di Stella solitaria, Matewan e Fratello da un altro pianeta conversa con rassegnazione comunque bellicosa sullo stato delle cose nel mondo che ha aiutato a creare – quello del cinema indipendente americano.

Il digitale sta davvero aiutando i filmmakers indipendenti? 

Il digitale rappresenta un grande vantaggio per i documentaristi, che spesso erano costretti a bloccare le riprese per cercare fondi per comprare altra pellicola. E perché il documentario di solito non utilizza un impianto di luci e un direttore della fotografia, e la qualità dell’immagine generalmente è meno importante che il contenuto o il montaggio del racconto. Anche per un regista di film low budget i benefici nei costi sono notevoli; quando facevo i miei primi film negli anni Ottanta comprare la pellicola e pagarne sviluppo e stampa (col 16mm non ti lasciano scegliere le riprese, devi stampare tutto il girato) rappresentava tra un terzo e un quarto del budget: col digitale è solo una frazione di quella cifra. Inoltre molti filmmakers piuttosto che spendere per noleggiare la cinepresa digitale, se la comprano. Un altro vantaggio riguarda il color timing dove si possono migliorare le cose molto più di quanto si possa fare con la pellicola. Se un microfono ti entra in un’inquadratura, non perdi la ripresa, semplicemente lo cancelli digitalmente. Se il fogliame di un albero risulta troppo marrone o troppo verde, lo puoi sistemare in post-produzione. Questi sono i vantaggi. Detto questo, il digitale non è comunque film e ci sono delle cose che non mi piacciono. Tende a perdere incisività se la giornata è soleggiata e la luce entra dalle finestre etc., oppure «legge» le immagini troppo in dettaglio – il trucco diventa difficile e non ce la fai a spacciare dei tessuti scadenti per belle stoffe nei costumi. È una nitidezza di cui non si riesce a liberarsi con il solo uso di filtri. È difficile ottenere un’immagine più pittorica col digitale, anche se grandi direttori della fotografia ai quali viene dato abbastanza tempo per le riprese e un buon piano di lavorazione possono fare miracoli. Il lavoro di Dick Pope per il recente film di Mike Leigh Mr. Turner costituisce un buon esempio.

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La distribuzione cinematografica sembra essere in crisi: quali sono i problemi e in che modo li stai affrontando o quali sono le tue idee per quel che riguarda il futuro? 

Il pubblico del cinema non-hollywoodiano è molto invecchiato al punto che quel tipo di spettatore non esce più così spesso per andare al cinema. Ma quel pubblico non è stato rimpiazzato da un pubblico più giovane. Allo stesso tempo, ogni anno negli Stati uniti vengono prodotti letteralmente migliaia di film indipendenti (rispetto alla dozzina di quando abbiamo cominciato noi negli anni Ottanta). Un cinema quindi potrebbe mostrare un film nuovo, e anche piuttosto buono, ogni giorno dell’anno, ma molti film non rimangono in sala più di una settimana. Se la pellicola però, rimane in sala solo per una settimana e in un centinaio di cinema, il filmmaker non ricava abbastanza soldi da giustificare il costo della produzione. Il Video-On-Demand produce un po’ di soldi ma purtroppo c’è anche un numero enorme di persone che finiscono per vedere i film senza pagare alcunché. Idealmente questo sistema potrebbe funzionare se uno avesse una transazione diretta sul computer tra il filmmaker e il singolo spettatore e se non ci fosse quindi un mediatore – ma questo probabilmente offrirebbe dei benefici solo alle persone già famose – forse più agli attori che ai registi. Uno sviluppo interessante è l’aumento del numero di giocatori e utilizzatori interattivi – io penso che ci sarà in futuro un vero mercato per contenuti narrativi abbastanza aperti da consentire allo spettatore di dargli forma mentre sta guardando il prodotto.

Come funziona il tuo cinema nell’attuale mercato? In Europa in particolare? 

Non abbiamo venduto nessuno dei nostri film recenti in Europa in dieci/dodici anni. In parte (ci dicono gli agenti delle vendite internazionali) è perché cosi tante delle storie riguardavano personaggi non-white; in parte è che non stiamo facendo film che riguardano i giovani e con grandi star del momento. Ma non li facevamo così neppure quando abbiamo cominciato. In parte è l’economia della distribuzione in quei paesi – quello che gli esercenti pensano che il loro pubblico voglia vedere. Ma i nostri film non trovano distribuzione neppure negli Stati uniti, quindi non saprei proprio cosa dire di specifico sulla situazione in Europa.

Quali sono i tuoi progetti attuali e a che punto sono? 

Continuo a fare lo sceneggiatore a contratto, lavorando sia in tv che nel cinema. Ho appena finito di scrivere il pilot di una serie televisiva che cominciano a girare la prossima settimana; realizzano il primo episodio finanziandolo in modo indipendente e poi sperano di vendere la serie a un network o a una tv satellitare. Poi sto scrivendo per diversi produttori tre film che saranno diretti da qualcun altro, se vengono realizzati. Per questi sono ancora nella fase della revisione. Ho scritto altri tre film con l’idea di dirigerli io – uno sul caso Rosenberg negli anni Cinquanta, uno ambientato in una colonia penale in Tasmania verso il 1830 e uno ambientato alla Carlisle Indian Training School nel 1890, sceneggiature queste, alle quali mancano soltanto i soldi per la produzione. Una sceneggiatura che ho scritto per John Cusack molto tempo fa, sul medium Edgar Cayce, mi è arrivata indietro con il mio nome come regista e stanno cercando i fondi anche per quella. Per cui, come molti registi, non mi mancano certo i progetti, ma non ho idea se riuscirò mai a realizzare almeno uno di questi film.

Che rapporti hai con le serie tv? 

In America si è scoperto solo di recente il formato della serie televisiva «limitata»- che dura soltanto tre o al massimo 12 episodi, la miniserie insomma. Naturalmente si preferisce ancora qualcosa come i Sopranos che andava in onda per diversi anni, ma l’apertura della nuovo formato ha dato vita ad alcuni lavori molto buoni. Ho scritto un bel po’ di queste miniserie; finora nessuna è stata realizzata, ma ho buone speranze. Il ritmo del racconto delle serie televisive è diverso da quello dei film di finzione normali – puoi certamente scavare di più nel personaggio e raccontare una storia che copre un certo arco temporale, senza dovere sintetizzare troppo, quindi sarebbe un buon posto in cui lavorare per me. Gli ultimi due romanzi che ho scritto, ad esempio, assomigliano più a una miniserie che a un film.

Hai donato il tuo archivio personale all’Università del Michigan, ma non trovi che sia un po’ presto…? 

Nel momento in cui abbiamo cominciato a mandare della roba a Michigan io lavoravo nel cinema ormai da più di trent’anni, che vuol dire un tempo abbastanza lungo da aver accumulato parecchio materiale. Tra sceneggiature mie e lavori per altri ho scritto un centinaio di copioni e mi è sembrato che Michigan, che ha un programma di sceneggiatura molto buono e ha già gli archivi di Robert Altman e in parte quelli di Orson Welles, poteva essere un luogo in cui il materiale sarebbe stato effettivamente utilizzato. E siccome si mettono così poche cose per iscritto su carta oggi, ho cominciato a fare stampare, nel mio ufficio, le cose che ci scriviamo e anche le prime stesure dei materiali, proprio per mandarli all’archivio.

Vuoi aggiungere qualcosa? 

Mi interessa molto vedere gli sviluppi di tutto questo – come andranno a finire le cose. Degli insegnanti che conosco dicono che in generale oggi i ragazzi hanno un livello di attenzione più breve: per loro è difficile concentrarsi su una cosa per un periodo prolungato. Questo problema viene affrontato nei nuovi media attraverso una forte stimolazione che rimpiazza il racconto – musica heavy-metal nel commento sonoro, violenti movimenti di macchina per il gusto del movimento in sè e l’abitudine di mettere finestre sullo schermo televisivo con un contenuto non collegato alla storia che si sta raccontando.Come il cinema muto può sembrare lento e scontato alla gente che è cresciuta col sonoro, potrebbe essere che il cinema «classico» non interessi più o non soddisfi gente che è cresciuta bombardata da immagini e abituata al multi-tasking a un livello piuttosto superficiale, quasi virtuale. Il cinema del passato era popolare in parte anche come forma di evasione dalla realtà. Ma persone che trascorrono ore e ore durante il giorno in uno spazio virtuale hanno davvero bisogno di evasione?