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John Ruskin, i nobili pericoli dell’illusione

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 7 mesi faEdizione del 5 aprile 2024

John Ruskin (1819-1900) nel febbraio del 1884 tenne presso la London Institution due conferenze dal titolo La nube tempestosa del XIX secolo. La seconda si giustifica come un’integrazione della prima. Ruskin la apre rivolgendosi agli ascoltatori con queste parole: «Contrariamente a quel che avrei desiderato, mi è stato impossibile questa primavera preparare due nuove conferenze per la London Institution; ma avendo constatato che i suoi membri erano interessati all’argomento della mia conferenza sulle nuvole più di quanto mi sarei aspettato, l’ho arricchita, nel pronunciarla una seconda volta, di alcune elucidazioni e osservazioni e note». La prima conferenza «sulle nuvole», secondo il proposito di Ruskin, intendeva richiamare l’attenzione dei suoi uditori su «una serie di fenomeni riguardanti le nuvole, fenomeni che, per quanto mi è stato possibile esaminare le prove attualmente disponibili, sono peculiari dei nostri tempi, e che, ciò nonostante, non hanno ricevuto alcuna attenzione, né sono stati descritti, da parte dei meteorologi».

Ruskin constata la presenza d’un tipo di nube che mai era stata riscontrata nel cielo nel corso dei secoli passati. Si tratta della Storm-Cloud, la nube tempestosa, appunto. Mai prima dell’Ottocento formatasi, non nell’antichità, non nel medio evo. Tale nube, infatti, non è descritta dai poeti antichi che ai cieli pur han dedicato versi immortali, da Omero a Virgilio a Orazio. Non se ne trova traccia nemmeno in Dante se pure, precisa Ruskin, è necessario ammettere «che il vapore che sovrasta la palude degli iracondi nell’Inferno, e “l’alito di giù che vi s’appasta” esalante da Caina, e il “fummo” del cerchio degli iracondi nel Purgatorio hanno una notevole somiglianza con la nube del vento malefico», ma, con tutta evidenza, «Dante li concepisce unicamente come fenomeni sovrannaturali».

Della nube tempestosa quale un fenomeno naturale, non per caso tacciono anche poeti come Milton. O William Wordsworth («Erravo solo come una nuvola/che flotta in alto sopra valli e colline»), o Byron, che entrambi vivono tra Sette e Ottocento.

È che l’avvento della nube tempestosa ha una data. Ci informa infatti Ruskin che «in base a un esame degli annuari metereologici a partire dal 1831 sono in grado di affermare con assoluta certezza che nei successivi quarant’anni (approssimativamente dal 1831 al 1871, dato che i fenomeni in questione si sono imposti gradualmente) nubi quali quelle che si vedono oggi, e per molti mesi ininterrottamente, mai furono viste nei cieli dell’Inghilterra, della Francia o dell’Italia».

Ruskin dedica molto tempo alla contemplazione del cielo. Registra le variazioni della luce e del buio. Ne fa oggetto di scrupolosa meditazione riguardo all’influenza che esse esercitano sullo stato d’animo e, prima ancora, sugli umori e le interferenze che inducono nel quotidiano esistere di ciascuno. Ma poi Ruskin, nel momento in cui si svolgono, di quei fenomeni celesti, di vapori, di venti, di mutazioni e movimenti egli disegna il tracciato, fissa le forme transeunti e ne investiga i possibili costrutti di senso.

È pertanto in grado di mostrare, nel corso della prima conferenza, cinque disegni che ha realizzato in altrettante significative occasioni. Tra questi un cielo del 6 agosto a Brantwood, nel 1880. Ne troviamo una descrizione puntuale anche nel suo Diario: «Grandi schiere di nubi temporalesche (…) nube nera che somigliava a un mostro (…) saliva rivoltolandosi (…) lenta e minacciosa valanga (…) di certo si tratta di fenomeni nuovi nei cieli».

Ruskin è perfettamente consapevole che ogni sua affermazione sulla nube tempestosa, nei commenti della stampa, «è stata sprezzantemente tacciata di fantasiosa o addirittura di demenziale». Un giudizio che non vale la pena confutare da chi non ha «mai avuto difficoltà alcuna a usare o non usare la propria capacità visionaria», e innanzi al quale Ruskin rivendica con orgoglio di «possedere una mente capace di visioni e soggetta ai nobili pericoli dell’illusione, giacché sono proprio queste a distinguere l’intelletto speculativo dell’uomo dall’istinto privo di immaginazione dei bruti».

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