John Mayall, l’infaticabile
John Mayall – foto Sandro Campardo/AP/Keystone
Alias

John Mayall, l’infaticabile

Miti/Un ricordo del grande musicista inglese. Voleva fare il grafico, poi per fortuna cambiò idea In sei decenni di carriera con la sua armonica e la sua chitarra ha incantato generazioni di appassionati e lanciato artisti come Eric Clapton
Pubblicato 3 mesi faEdizione del 10 agosto 2024

In una delle belle e scoppiettanti presentazioni che dal palco il grande armonicista e vocalist Fabrizio Poggi regala al suo pubblico, racconta Serena Simula in un libro recente proprio a lui dedicato, il musicista spiega: «L’ottavo giorno, dio ha creato il blues». Quel blues che è «rabbia, dolcezza, disperazione, tenerezza, non una legge o una religione, ma qualcosa che appartiene all’intimo dell’essere umano: alla passione. E poiché la passione è qualcosa che sta dentro il cuore di ognuno di noi, non ha regole. Né tanto meno si può spiegare».

L’ottavo giorno, il dio che pregano gli afroamericani per discendenza, biologica o culturale che sia, di sicuro aveva messo in cantiere anche un prototipo perfetto di bluesman infaticabile e a tutto tondo, andandolo a scovare in terra d’Albione: John Mayall. Dimenticandosi poi, quasi, la data di scadenza. Sembra quasi impossibile pensare a un mondo in cui non risuoni più la sua voce asprigna e potente, in cui il bending sulle note soffiate in un’armonica Hohner o su una corda di chitarra elettrica non continui a rilanciare l’eterna sfida di quelle sonorità che stanno in bilico come equilibriste tra una nota definita e un’altra. Le fibrillanti note blu, appunto, quelle di cui racconta un altro veterano dei pentagrammi dall’Europa con un amore speciale per gli States, Paolo Conte.

UN SIMBOLO
Di John Mayall, scomparso a novant’anni nella sua California, in cui s’era trasferito da decenni, quando leggerete queste note si sarà scritto di tutto e di più, qui giova iniziare un po’ di gimcana ulteriore nei vorticosi sei decenni abbondanti di carriera dell’uomo simbolo del British blues, assieme all’amico e rivale Alexis Korner, rammentando una definizione che si usa nei paesi anglosassoni per certe persone che, con la loro opera, hanno dato un bel daffare alle parche che srotolano il filo della vita. Sono figure «larger than life», più grosse della vita stessa. Per carisma, per sapienza, per essere nati nel posto giusto e nella temperie storica perfetta per indirizzare gli eventi.

Per essere stati parte di un tutto, perché la storia si fa con gli altri, non da soli, ma col dono specifico di sintonizzare le antenne sempre nel punto cardinale azzeccato, a intercettare idee nuove da una polpa antica e mostrarle agli altri. Diventati poi grandi a loro volta, dopo essere passati per la solida palestra blues di John Mayall.

Buffo pensare ora che John Mayall non era stato uno di quei giovanissimi musicisti rampanti vissuti da subito di musica: quando era arrivato a Londra, trentenne, sapeva già suonare diversi strumenti e bene, ma la musica era passione e oggetto di venerazione maniacale, non mestiere; nella capitale c’era arrivato per fare il grafico, non il bluesman. Era cresciuto in un villaggio del Chesire non lontano da Manchester e il blues l’aveva scoperto, assieme al jazz, nell’imponente collezione di 78 giri di suo padre.

Aveva cominciato a mettere le mani sulla chitarra, emulando gli spunti aspri e sanguigni di Leadbelly e Big Bill Broonzy, poi sul pianoforte, scoprendo infine una passione divorante per l’armonica a bocca, ispirato da Sonny Terry e Sonny Boy Williamson. Fotografie degli anni Cinquanta ce lo mostrano nella band della locale Art School, la chitarra ben salda tra le mani. Sia fatto merito al Signore del Blues se un giorno ha coraggiosamente tagliato con matite, inchiostri e tecnigrafo, e si sia messo a disegnare inauditi scenari sonori in una Swingin’ London che ardeva di novità, in quella prima metà degli anni Sessanta in cui convulsamente si metteva in moto la grande accelerazione creativa e di mercato della popular music.

LA PRIMA ONDATA
Alexis Korner, di cinque anni più anziano di John Mayall, dopo aver fatto parte dell’orchestra jazz di Chris Barber aveva dato la stura alla primissima ondata di blues in salsa inglese: a Ealing, West London, aveva aperto un seminale club dedicato al blues. Era il segnale che John Mayall aspettava, per fare il salto nella «sua» musica, il blues. E il blues sarà anche nel nome di rottura scelto per la sua band, i Bluesbreakers. Si noti l’understatement sornione e potente di quel nome: gli «spaccablues». Come a dire che si prendeva atto dell’avvento di una generazione che aveva sì a modelli grandi protagonisti afroamericani del blues, ma al contempo quella musica la si faceva esplodere dall’interno, forzandola anche verso altri lidi. Incrociandola con la grezza determinazione delle mille garage e beat band del sottobosco inglese, o con le più raffinate influenze jazz e rhythm and blues. Tutto e tutto assieme. Un destino nel nome, in pratica.

Certo, anche blues puro, per Mayall, ammesso e non concesso che l’aggettivo sia giustificabile per note nate felicemente spurie e bastarde: tant’è che quando passano per la prima volta dall’Inghilterra in quegli anni i tour di di John Lee Hooker, di T-Bone Walker, di Eddie Boyd e di Sonny Boy Williamson, John Mayall è il primo nome da chiamare, per metter su una backing band di livello e che conosca l’abc dei classici blues ancora merce da stupore, per il grande pubblico.

Quando riesce per la prima volta a entrare in uno studio di registrazione, i Bluesbreakers alla prova fanno scintille, scintille concentrate in appena due anni e tre ellepì, tra il 1966 e il 1967: Bluesbreakers-John Mayall with Eric Clapton, A Hard Road, Crusade. Mayall non è solo un affidabile bluesman con la pelle bianca, un giovane che ha un sapere sul tema enciclopedico, un ottimo organizzatore, è anche un talent scout sopraffino che sa intuire il valore di certi giovani musicisti.

Per i suoi Bluesbreakers passano il citato Eric Clapton, Peter Green e John McVie che poi fonderanno i Fleetwood Mac, Mick Taylor, che avrà l’onore e l’onere di sostituire Brian Jones nei Rolling Stones, i due batteristi Aynsley Dunbar e Keef Hartley, al centro di decine di progetti del British blues, Andy Fraser, che formerà i rocciosi Free. Il ’68 brucia anche per John Mayall, con Bare Wires i Bluesbreakers sono diventati una formazione a settetto con Taylor, e soprattutto Dik Heckstall Smith al sassofono, Jon Hiseman alla batteria, Tony Reeves al basso: c’è già il nucleo seminale a tre di un poderoso gruppo a venire, in bilico tra blues rock e rock progressivo, i Colosseum.

LA CORSA DI UN TRENO
Un’intera facciata tira le somme del «new blues» inglese: è una suite complessa scritta da Mayall che dà titolo al disco, con stratificazione fiatistiche jazzistiche, ma che viaggia con una fluidità sonora impressionante. Mayall non si ferma mai. Chi si attendeva una replica di Bare Wires resta spiazzato, l’anno dopo, quando esce The Turning Point: blues acustico senza batteria con un «tiro» pazzesco, l’armonica stratosferica di Mayall a scandire il micidiale «train time», il fiato che simula la corsa di un treno di Room to Move, da allora un classico. Svolta anche nella vita.

Mayall si trasferisce nel Laurel Canyon californiano, vita convulsa musicalmente, come sempre, gustoso relax westcoastiano nei rari momenti di libertà. I musicisti americani di jazz, di blues, di rock lo adorano: ha appena trentasei anni, ma già una fama di maestro e di leader che sa valorizzare chi suona con lui. Si ritrovano nei suoi gruppi musicisti stellari come Red Holloway, il chitarrista virtuoso e ipertecnico Harvey Mandel, il trombettista gentile liricissimo Blue Mitchell.

Difficile trovare un disco debole o un concerto poco ispirato, nelle sue successive decadi: a sceglierne un paio per tutti ci sarebbe da riascoltarsi innanzitutto Wake up Call del 1993 con un «dream team» da sogno, per chi ama blues e rock blues. John Mayall ha attorno Buddy Guy, Mavis Staples, Albert Collins, Mick Taylor. Poi Along for the Ride, 2001: stavolta a raccolta per Mayall ci sono i vecchi sodali Peter Green, Mick Taylor, Mick Fleetwood e John McVie, ma anche Billy Gibbons dei ZZ Top, Steve Miller, Billy Preston, Otis Rush, Gary Moore, Jeff Healey.

Nei Grammy Award del 2022 il suo ultimo disco di studio, The Sun Is Shining Down, si merita il riconoscimento come «Miglior disco di blues tradizionale dell’anno». Non male per un signore British di ottantotto anni coi capelli candidi. È anche l’anno in cui annuncia «la fine dei suoi giorni epici sulle strade del mondo». Ma non delle attività: ad esempio cominciando a selezionare le uscite discografiche dal suo sterminato archivio di concerti e collaborazioni, con qualche pezzo da brividi. Ad esempio Time Capsule, una capsula del tempo di nome e di fatto, con registrazioni dal vivo tra il 1957 e il 1962, prima dei Bluesbreakers. In una intervista al Guardian di una decina d’anni fa, John Mayall disse al suo interlocutore: «A essere onesti, io non credo che nessuno sappia definire con precisione cosa sia il blues. Quello che so io è che non posso fare a meno di suonarlo, nella vita».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento