Visioni

John Cassavetes, l’utopia di un cinema umano

John Cassavetes, l’utopia di un cinema umano

Rassegne La retrospettiva dedicata al filmmaker e attore dalla Cinémathèque française a trent’anni dalla scomparsa

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 20 giugno 2019

In una sala piena – quella intitolata a Henri Langlois, la più grande della Cinémathèque française – la cosa che colpisce di più sono le risate del pubblico, il divertimento condiviso nella riscoperta dei film di John Cassavetes sul grande schermo. L’effetto ancora oggi comico e al contempo di profonda tenerezza e empatia della sequenza di Love Streams – Scia d’amore (1984) in cui Sarah Lawson (Gena Rowlands), uscita per comprare al fratello un cane, torna a casa con due pony, una capra, galline e anatre. O lo spaesamento di Minnie Moore (ancora Rowlands) al suo sfortunato appuntamento combinato con il cugino di un’amica che urla cose imbarazzanti e fuori luogo in Minnie e Moskowitz (1971).

A JOHN CASSAVETES – scomparso trent’anni fa, il 3 febbraio 1989 – la Cinémathèque di Parigi dedica (dal 20 maggio al 22 giugno) una retrospettiva completa, un’occasione appunto per riscoprire (o scoprire per la prima volta, come per molte delle persone che hanno affollato la Cinémathèque in questi giorni) il lavoro di uno dei più importanti cineasti americani, e di rispondere alla domanda che alla sua morte si era posto Thierry Jousse nel libro a lui dedicato (John Cassavetes, riproposto da Lindau nel 1997), sull’influenza futura del suo cinema: «L’obiettivo fondamentale sarà quello di vedere e rivedere i film dopo anni, di sottrarli alla nostalgia e, soprattutto, di estrarne quel potenziale di contaminazione formidabile per chiunque percepisca in sé la pulsione del cinema».

Qual è quindi l’eredità viva e ancora in divenire che ci lascia John Cassavetes a distanza di trent’anni? Innanzitutto, come dice Nicole Brenez (storica, programmatrice e docente di cinema, che alla Cinémathèque ha incontrato il pubblico per discutere dell’Assassinio di un allibratore cinese, oggetto di otto anni di studi e insegnamento) una «fiamma inestinguibile». Al pari di registi come Fassbinder o Pasolini, «Cassavetes combatteva per una causa che lo ha reso prezioso per l’umanità», e grazie alla quale le persone lo proteggeranno sempre dall’oblio.

Una causa non esplicitamente politica, nascosta fra le pieghe di film «intimi», rivolti ai sentimenti umani: la causa proprio dell’umanità, della sua rappresentazione fuori dai canoni, «di cosa essa sia o potrebbe essere, in contrapposizione alla Hollywood piena di cliché, semplificazioni, diktat, obbedienza al profitto». L’umanità sorprendente dell’amore del tutto fuori dagli schemi fra Mabel (Rowlands) e Nick Longhetti (Peter Falk) in Una moglie ad esempio, la storia di una famiglia alle prese con la malattia mentale della protagonista. Ma anche e soprattutto, aggiunge Brenez, «l’invenzione: Cassavetes è uno straordinario creatore di forme, strutture, montaggio, di fughe dalle narrative abituali».

Un’utopia ricercata a tutti i livelli: sullo schermo, nel lavoro e nella vita a partire dal suo debutto come regista, quando invitato a una trasmissione radiofonica per promuovere Nel fango della periferia di Martin Ritt, di cui era protagonista insieme a Sidney Poitier – alla Cinémathèque sono in programma anche i film del Cassavetes attore – lancia un crowdfunding ante litteram per finanziare il suo primo film, Ombre (1958), una storia sul jazz e l’amore interrazziale che rappresenta «una breccia nel sistema» (Jousse) del cinema «tradizionale» ancor prima dell’esplosione delle Nouvelle vague, della rivolta contro il «cinema dei papà».

IN UN MOMENTO preciso della vita di Cassavetes, la cui bellezza e l’eccezionale talento come attore l’avevano avviato ad una carriera hollywoodiana di sicuro successo, alla quale voltò le spalle senza ripensamenti per inseguire la propria idea di cinema – pure in senso biografico cineasta di lotta. Un’utopia ricercata anche nella pratica del lavoro comune, quello della «tribù Cassavetes» come la definisce Brenez: il collettivo di collaboratori abituali dell’autore aggregatisi al gruppo in modo del tutto casuale e mai elitario. «Seymour Cassel – volto ricorrente di tanti film del regista, da Minnie e Moskowitz a Love Streams, scomparso lo scorso aprile – aveva raccontato di essere di passaggio e di aver chiesto alla troupe di Cassavetes: ’cosa posso fare per voi?’. Da quel momento è diventato uno dei membri principali della tribù», dice Brenez. E con lui tantissimi altri come Ben Gazzara, Peter Falk, il produttore Al Ruban, la moglie e «musa» Gena Rowlands. Una famiglia come quelle che riempiono il suo cinema, dalle famiglie di sangue ai «collettivi» di persone: quello teatrale della Sera della prima (1977) ad esempio, la comunità musicale di Ombre o il gruppo ristretto di amici in cerca di avventure di Mariti (1970).

Uno scambio tra la vita, il lavoro e lo schermo che riflette quel flusso continuo che è una delle caratteristiche principali dei film di Cassavetes: il movimento incontenibile del pensiero, dell’immagine, dell’attore. È il girovagare senza posa per le strade di Los Angeles del proprietario di un night club Cosmo Vitelli (Ben Gazzara) – killer per necessità in L’assassinio di un allibratore cinese (1976), o l’impossibilità di stare solo e in un posto troppo a lungo di Robert Harmon (Cassavetes) in Love Streams. O il pensiero imprendibile della nevrosi di Mabel Longhetti in Una moglie.

È anche la ricerca perenne della macchina da presa: di un particolare o al contrario di una veduta d’insieme, di un primo piano, un’espressione sfuggente, un momento irripetibile: «Un flusso continuo – aggiunge Brenez – che è sia fisico che emotivo: rappresenta ciò che le parole non possono dire, è un modo di mostrare l’esperienza umana in forma di esperimento permanente». Che continua in sala di montaggio dove Cassavetes raccontò di aver passato dieci anni della sua vita: a montare e rimontare i suoi film, dalle due versioni di Ombre al rivoluzionamento dell’Assassinio di un allibratore cinese rispetto al primo cut, fino alle tre versioni ulteriori (e purtroppo scomparse per sempre) di Mariti – ognuna incentrata su uno dei tre amici protagonisti. «E montare un film non significa solo raccontare una storia ma costruire una struttura formale, come un compositore. Anche per questo credo che lui sia estremamente prezioso, perché ha dedicato la sua vita a un laboratorio infinito di proposte estetiche».

TRENT’ANNI dopo la sua scomparsa, è impossibile non pensare anche all’importanza, specialmente nell’ottica di oggi, dei suoi personaggi femminili, tuttora fra i più vivi, complessi e veri mai apparsi sul grande schermo e nati quasi sempre dalla collaborazione fra Cassavetes e Rowlands. Dalla diva in crisi della Sera della prima ai tormenti di Sarah in Love Streams fino alla splendida Mabel Longhetti, persa in un mondo che non la può comprendere. Anche quando Cassavetes si confronta con una narrazione più tradizionale come nel caso di Gloria – Una notte d’estate (1980), la protagonista emerge con l’umanità e l’ironia tipiche dei personaggi del filmmaker: «È incredibile – dice Brenez – come Gena Rowlands inventi un personaggio femminile che è tutto fuorché seduttivo, trovi ogni strumento possibile affinché il pubblico non sia sedotto da Gloria, che va contro tutti i cliché della tradizione: a tratti è cattiva, ingiusta, imprevedibile». Inafferrabile come tutti i personaggi di Cassavetes.

«MOVIES set you up» – i film ti imbrogliano – dice Minnie Moore alla sua amica di bevute in Minnie e Moskowitz, «Non importa quanto sei intelligente, ci credi lo stesso». E l’eredità di Cassavetes è proprio di aver sfidato questo imbroglio cancellando il confine fra lo schermo e la vita, nella ricerca condivisa con il pubblico di un’umanità diversa, utopica, meravigliosa nelle sue imperfezioni, che vive nelle immagini e sfugge per sempre alle parole.

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