All’inizio della complessa scrittura che Johannes V. Jensen dispiega nella Caduta del re, uno dei titoli maggiori della letteratura danese, di cui Bruno Berni firma la prima, efficace, versione italiana, scrivendone un preciso saggio introduttivo (Carbonio, pp. 309, € 16,50) sta la folgorazione per un quadro di Carl Bloch assai noto in Danimarca, che ritrae Cristiano II, figura centrale del libro, mentre è in prigionia a Sonderborg. Nell’opera, datata 1871, il monarca abbattuto si appoggia a un tavolo nella misera residenza, che divide con un domestico. La vicenda del re prigioniero illustrava esemplarmente la situazione del paese dopo la «guerra dei Ducati» del 1864, in seguito alla quale lo Schleswig-Holstein era diventato proprietà della Prussia dopo un conflitto che aveva lasciato segni assai profondi nel paese: proprio di questa guerra parla Herman Bang tra le righe del suo classico La casa bianca (1898).

Johannes V. Jensen in Italia ha avuto un numero limitato di traduzioni, per pochi titoli maggiori: Il ghiaccio (Rizzoli, 1933), Jorgine e Arabella (De Carlo, 1944 e 1946), I racconti dello Himmerland (Fabbri, 1968), inclusa una presenza nel mondo del giallo con Il mostro (Attualissima, 1937), mentre più recentemente era stato pubblicato il suo poema più celebre, Alla stazione di Memphis (La Pulce, 2005). Vincitore del Nobel nel 1944, e ciò nonostante ancora poco noto da noi, lo scrittore danese si misura in modo assai singolare con la dimensione del romanzo storico: La caduta del re uscì dopo una lunga gestazione, tra il 1900 e il 1901, in tre diversi volumi, che non recavano indicazione del titolo collettivo e che ora costituiscono i capitoli titolati La morte della primavera, La grande estate, L’inverno, e la cui edizione definitiva fu riordinata e licenziata dall’autore proprio nel 1944, l’anno del Nobel.

La scrittura di Jensen riproduce il senso della Storia nelle sue giravolte, raccontando il momento in cui la Danimarca perse il suo ruolo di paese-guida del nord d’Europa mentre lasciava spazio alla nuova stella svedese, e facendo filtrare le vicende storiche attraverso lo sguardo di Mikkel Thogersen, vero protagonista del romanzo. Studente di filosofia, povero, dopo aver abbandonato gli studi è ossessionato dall’attrazione per una donna che gli sfugge. Legato da un rapporto di dipendenza con il nobile Otte Iversen, di cui furioso di vendetta rapisce l’amata, la bella Ane Mette, Mikkel Thogersen si fa soldato e osserva con disincanto un paese che sta andando in rovina.

Bruno Berni nell’introduzione sottolinea come i «miti di Jensen, cui ha dedicato la maggior parte della sua opera, cercando di interpretare il destino dell’umanità, siano stati talvolta considerati un parallelo moderno alle fiabe di Hans Christian Andersen». La scrittura di Jensen unisce infatti l’ampiezza del racconto corale a un afflato poetico, almeno quando la natura, cui lo scrittore danese dedica pagine notevoli, prende il sopravvento nella ossessiva, convulsa vicenda degli uomini, che continuamente ripetono i propri errori, mentre intorno a loro tutto muta: non i loro istinti e desideri, tuttavia. Fortissima è la consistenza del filo, che – infatti – riporta all’attenzione in tutte le giravolte della vicenda, le storie dei figli (incarnati dai personaggi di Axel e Inger) rifiutati dai loro padri e lasciati al destino.