Joe Strummer, uno di noi
Miti/Vent'anni senza le visioni politiche e sonore della storica voce dei Clash Gli inizi sull’onda del punk, la complessità di «London Calling», il capolavoro «Sandinista», le tante collaborazioni, il gran finale con i Mescaleros
Miti/Vent'anni senza le visioni politiche e sonore della storica voce dei Clash Gli inizi sull’onda del punk, la complessità di «London Calling», il capolavoro «Sandinista», le tante collaborazioni, il gran finale con i Mescaleros
Joe Strummer manca da vent’anni. Ci manca. Manca a noi che lo abbiamo seguito, con passione, con rabbia, fiducia, fratellanza. Chi ha vissuto un certo periodo ricorda la sensazione di medesima attitudine con chi era tuo idolo («No more heroes anymore» – mai più idoli – cantavano nel frattempo i «colleghi» Stranglers). Joe e compagni erano praticamente coetanei che mettevano in musica quello che noi pensavamo. Erano i nostri riferimenti ma allo stesso tempo nostri «fratelli». Joe l’ho incontrato un paio di volte, a Londra, per strada e poi suonando prima di lui in un concerto con il mio gruppo del 1984 a Milano. Non c’era alcuna distanza, era solo uno che parlava la nostra lingua, aveva le nostre idee, si rapportava alla pari. Conta molto, tantissimo, quasi tutto, quando hai vent’anni.
UN MEGAFONO
Manca/ci manca la sua visione del mondo, mai utopica, sempre concreta, lucida, non di rado considerata velleitaria o declinata per slogan. Ma non era così. Le parole di Joe, nelle canzoni, nelle interviste, nelle dichiarazioni, configuravano il mondo che stiamo vivendo oggi, ne coglievano le ingiustizie e le contraddizioni. A volte con una dose di ingenuità, quasi adolescenziale, quasi a far vivere la frase di Che Guevara: «La durezza di questi tempi non ci deve fare perdere la tenerezza». Nella sua vita ha sperimentato tanto, ha osato, sbagliato, riconosciuto gli errori, è ripartito da capo, ha vissuto tante vite, sempre intensamente e al limite. Se ne è andato proprio quando pareva essersi «calmato» e tranquillizzato trovando un nuovo equilibrio, godendosi ancora un moderato successo e una ritrovata vena artistica. I Clash sono stati il suo megafono, la sua formazione artistica e culturale, passando dal punk dei primi due album The Clash (1977) e Give ‘em Enough Rope (1978) alla complessità di London Calling (1979) nel quale traghettarono le loro passioni, restando legati al punk ma aprendosi a quello che le loro radici gli avevano insegnato (reggae, rock’n’roll, blues, soul, rhythm and blues, jazz, ska, folk). Con Sandinista! del 1980 scrivono il loro capolavoro. Ogni volta, anche dopo quaranta anni, al riascolto si scopre qualcosa di nuovo che non si era mai notato/sentito prima. Ogni volta è una piccola gioia. Uno dei pochi album che rimangono sempre freschi, pulsanti, nuovi, semplicemente belli. Sandinista! è un capolavoro nella sua bulimia, perché ha tutti quei trentasei brani. Alcuni meno riusciti, altri incomprensibili, alla fine tutti indispensabili per la completezza dell’opera. È uno dei dischi più punk mai realizzati. L’arroganza e lo sfacciato coraggio di registrare trentasei brani e decidere di pubblicarli tutti (al prezzo di un album, rimettendoci, consapevolmente, una montagna di soldi). La capacità di reggere lo «scontro» con fan e critica, la creatività di comporre un’incredibile mole di materiale (per la maggior parte di indiscutibile, altissimo livello), dopo il già di per sé monumentale e coraggioso London Calling e il mini lp Black Market Clash. Nessuno aveva osato tanto e nessuno ci ha più riprovato, o perlomeno è riuscito a eguagliarlo.
Sandinista! è uno degli album più importanti di sempre. Segna il passaggio da una musica compartimentata in generi ben precisi e identificabili a un calderone indistinto che li raggruppa tutti. Fotografa la New York del 1980 che prelude al mondo che ci ritroviamo, volenti o nolenti, quaranta anni dopo. Un mondo che, caduti i muri ideologici, devastato da un turbocapitalismo assassino, guerre, ignoranza, disparità, ingiustizie, si mischia, si ibrida, contamina, creando in continuazione nuove realtà che contraddicono il passato pur conservandone le tracce. I Clash con Sandinista! ne hanno scritto, nel dicembre 1980, il manifesto e la colonna sonora e creato uno spartiacque nella musica e nella cultura. «Vorrei che non si dicesse che i Clash sono stati solo un gruppo punk. Il punk è uno spirito molto più ampio della musica grezza e semplice che solitamente si identifica con quella parola. I Clash sono stati un gruppo di fusione, non una band di genere. Abbiamo mischiato reggae, soul e rock’n’roll, tutte le musiche primitive, in qualcosa di più della somma dei singoli elementi. Soprattutto in qualcosa di più del semplice punk di tre accordi» (Joe Strummer). Sarà il canto del cigno artistico.
RESTO O VADO?
Difficile da considerare tale, visto il successo del successivo Combat Rock che diede loro la notorietà mondiale e commerciale (con relativo conto in banca finalmente gonfio e, per tutta la vita, stabile, dopo anni di ristrettezze) con due brani come Rock the Casbah (peraltro frutto, mai sottolineato, quasi esclusivo del batterista Topper Headon che ne ideò riff e groove) e di Should I Stay or Should I Go. In realtà l’idea del gruppo era un doppio album dal titolo Rat Patrol from Fort Bragg, sperimentale, evoluzione del sound contaminato di Sandinista! tra funk, breakbeat, calypso, reggae, dub, jazz con brani dilatati, talvolta caotici, pieni di suoni avanguardistici (per i tempi), retaggio quasi esclusivo degli interessi e delle passioni di Mick Jones. Probabilmente destinato a cattiva sorte. Il risultato finale sarà respinto dalla band, dai discografici, dal manager, il mix affidato a Glyn Johns e l’album sintetizzato in un singolo con dodici tracce (buona parte delle quali tagliate, ripulite, ridotte a lunghezze compatibili a un ascolto veloce), lasciando buona parte del lavoro inedito.
A questo punto la band deraglia. Topper fuori gioco per l’ingestibile dipendenza, Mick Jones che guarda ad altri orizzonti, Joe e Paul confusi e senza particolari prospettive. Alla fine Joe licenzia prima Topper Headon e poi il compagno artistico di sempre, Mick Jones. La band non esiste più, Joe prova a tenerla insieme reclutando altri musicisti ma il timone è in balia delle onde. I concerti con la nuova formazione sono solo un pallido ricordo dei travolgenti live act dei Clash, le scelte successive discutibili e confuse. Una serie di demo per un nuovo album vengono pubblicati, in modo del tutto raffazzonato, dal manager Bernie Rhodes, in Cut the Crap, album poi rinnegato e talvolta nemmeno inserito nella discografia ufficiale. Batteria elettronica, riff di chitarra, bozze di brani (unico degno di nota This Is England, estremo urlo di lucidità di Joe) ma scarsa sostanza, soprattutto a causa di una totale assenza di produzione e filo conduttore. Una fine grama e ingrata per uno dei nomi più sinceri e veri nella storia del rock. Il gruppo finisce qui. Gli altri si reinventano in altre vesti ma come spesso capita non riusciranno nemmeno lontanamente a fare rivivere la magia artistica del gruppo madre.
NUOVI PROGETTI
Lo stesso Joe inizia un percorso fatto di mille collaborazioni e nuovi progetti nei quali il talento, lo spirito originario sono palesi ma che non riusciranno mai ad eguagliare quanto fatto dal 1977 al 1983. Il cammino è incerto ma rappresenta al meglio la visione artistica e il carattere di Joe. Sperimenta, fa le cose che gli vengono in mente, si rimette in gioco. Il vate del punk, il portavoce generazionale, è un uomo vero, un artista a 360 gradi. Si spende per iniziative antifasciste e antirazziste e guarda con interesse al cinema. Compare con due brani (non esaltanti) nella colonna del film dedicato a Sid Vicious e Nancy Spungen Sid & Nancy e come comparsa nei film Straight to Hell (per cui compone altri due brani non proprio essenziali) e Walker di cui cura la colonna sonora a base di strumentali in odore di reggae, ritmi e gusti brasiliani, calypso. Niente di indimenticabile.
Sorprende nel 1986 la sua collaborazione in No 10 Upping St, secondo album dell’ex sodale Mick Jones e i suoi Big Audio Dynamite. Joe compone con Mick cinque dei nove brani e produce il disco. Anche in questo caso nulla che riporti ai recenti fasti dei Clash. Compare con Paul Simonon e John Lydon nel video Bad Medicine (diretto da Don Letts) nei panni di un improbabile poliziotto americano. Torna sul palco con i Pogues a sostituire il chitarrista ammalato, durante un tour americano nel 1988 e con cui continuerà a collaborare in altre occasioni. Il suo primo vero (e nominalmente unico) album solista è del 1989, Earthquake Weather con la sua nuova band, i Latino Rockabilly War. Un lavoro energico che riporta ai Clash più ruvidi e immediati, destreggiandosi tra punk rock, funk, reggae, ballate folk. Manca però la scintilla, i riferimenti sono datati, la musica nel frattempo è andata avanti e l’impressione «reducista» è forte, nonostante la bontà compositiva di molti brani (che non hanno un sufficiente supporto produttivo). L’album non andrà bene, nonostante le recensioni positive. Joe continua a svolazzare liberamente tra un progetto e l’altro, di nuovo come comparsa in film, come sostituto del cantante Shane McGowan nei Pogues, di cui produce l’eccellente Hell’s Ditch, collaborando a destra e a manca, tra musica e cinema. Gli anni Novanta corrono veloci in questo modo. «C’è una bella amaca nel mio cortile, fatta con lana di capra di montagna della Guyana. Sono un pigrone, mettiamolo in chiaro. E ho anche fatto un sacco di cose strane. Sono stato spesso coinvolto in cose che non sono mai venute fuori, anche solo per sfortuna. Ad esempio, ho impiegato otto mesi per realizzare una colonna sonora per un film intitolato When Pigs Fly. Ho fatto tutto, dall’inizio alla fine per l’intero film. Ma non è riuscito a ottenere alcuna distribuzione: l’hanno mostrato ai festival qua e là, ma non è successo niente. Probabilmente ci è voluto un anno per uscire dalla mia testa e poi non lo ha visto nessuno. Ho fatto due anni on the road con i Pogues e ho prodotto un loro album. Dovrò rimettermi in sesto e mettere giù una lista di quello che ho fatto pezzetto per pezzetto. Anche lo Chef Aid nella serie South Park. Questo è il mio massimo! Ho raggiunto la cima, ora posso anche fermarmi!».
Joe non smette di interessarsi alla politica, alla società, all’attualità. In un’intervista di quegli anni specifica con tanta ironia ma altrettanta consapevolezza il suo pensiero. «Ecco il mio nuovo manifesto. Tiro fuori dalla mia tasca un voto. (tira fuori un dollaro, ndr). Quello che mi piace dire a chiunque voglia ascoltarmi è che questo è il nostro unico voto. Lo dico perché abbiamo avuto tanti voti democratici e abbiamo votato per questo tizio due anni fa (Tony Blair, ndr) ed è diventato… ciò che non avrebbe dovuto essere. Non possiamo più sbarazzarci di lui. Forse abbiamo una corsa di quindici anni con questo tizio. Cosa possiamo fare? Piegare le nostre tende sul campo. Perderemo la battaglia ma non la guerra. Quindi mi è venuto in mente che dal momento che il mio vero voto è inutile, nullo e non valido, non inizieremo nemmeno a correre per strada bruciando e saccheggiando perché ci spaccheranno il culo. Quindi rimane l’unico voto, questa banconota da un dollaro. Tutto quello che sto cercando di dire è che, quando voglio comprare un disco, prendo la mia banconota da un dollaro e vado da un tizio all’angolo nel suo strano e bizzarro negozietto. Non lo darò a Virgin Megastore. Lo stesso quando vado a comprare dei vestiti. Voglio andare al Junk Clothing Box di Ditsy Louie. Sto usando il mio voto in questo modo, questa banconota da un dollaro è il mio voto. Non andrò in un fast food. Andrò in un posto che è di qualche lavoratore, dove il proprietario è in piedi dietro il bancone a stuzzicarsi i denti. Questa è la mia nuova filosofia. Usa il tuo voto, la tua banconota da un dollaro è il tuo voto. È ora che smettiamo di darlo a palate a queste gigantesche corporazioni. Non ci si deve fidare di loro con tutti i soldi che hanno. Ci faranno solo indebolire, robotizzare. Ci schiacceranno e ci polverizzeranno. Vogliono solo i nostri soldi. Preferirebbero che ci sedessimo sul marciapiede, senza dire niente, dando a loro banconote da un dollaro. Questo è ciò che vogliono che il mondo sia, mentre bevono champagne e si fanno di cocaina. La banconota da un dollaro è il tuo unico voto. Questa è la mia nuova atmosfera».
RITORNO ALLE RADICI
Alla fine del decennio Joe riprende in mano le redini della carriera musicale con i Mescaleros, progetto strutturato e finalmente ben focalizzato. I risultati non si fanno attendere e i due album del 1999, Rock Art and the X-ray Style e del 2001 Global a Go-Go lo ritrovano in grande forma creativa a lavorare sulle consuete radici (dal punk al rock al funk al mai dimenticato reggae a intense ballate alla Woody Guthrie) a cui unisce un gusto musicale moderno e attuale, assorbendo, come ha sempre fatto, influenze, suoni, riferimenti culturali e sociali di ogni tipo.
La morte lo coglie il 22 dicembre 2002 mentre sta preparando un nuovo album, Streetcore che uscirà postumo, un anno dopo, e in cui molte parti erano solo prove vocali ma che proprio per questo conservano una spontaneità e un valore maggiori. Significativamente un mese prima si era ritrovato su un palco con Mick Jones, per la prima volta dal 1983, spettatore a un concerto dei Mescaleros e che si unì a Joe e band per tre brani dei Clash, con gran finale con una travolgente London’s Burning. Da ricordare anche le bellissime trasmissioni alla BBC che aveva condotto dal 1999 con il titolo London Calling in cui proponeva classici reggae e folk, oscuri brani di gruppi sconosciuti e novità di vario tipo.
Dopo la sua scomparsa si sono moltiplicati i tributi di ogni tipo, soprattutto ristampe, tra cui la recentissima Joe Strummer 002: The Mescaleros Years, box con gli album incisi e una quindicina di inediti che segue Joe Strummer 001 (con 32 inediti della carriera solista) e Assembly con anche brani dei Clash eseguiti dopo lo scioglimento. Da ricordare in particolare il documentario Joe Strummer: the Future Is Unwritten di Julien Temple del 2007 con una lunga serie di contributi (da Bono a Martin Scorsese) e immagini semplicemente commoventi di Joe in tante delle sue incarnazioni, pubbliche e private. Sono tributi sinceri, pur nelle loro ovvie modalità speculative, perché Joe Strummer è stato, probabilmente più di ogni altro, un simbolo che è andato molto più in là della sua storia artistica. Pur in tutte le sue contraddizioni e criticità, pur subendo il ruolo di «martire santificato», quanto di più lontano dalla sua anima e attitudine. Per questo manca e ci manca. Perché era uno di noi, idealmente sempre al nostro fianco.
«Non voglio guardare indietro. Voglio andare avanti, ho ancora qualcosa da dire alle persone» (Joe Strummer).
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