Sono passati vent’anni: il cuore di Joe Strummer smise di battere il 22 dicembre del 2002. La notte più lunga dell’anno era appena finita, l’ex cantante dei Clash era tornato da una passeggiata mattutina nella sua casa nelle campagne del Somerset. La routine quotidiana prevedeva che avrebbe letto il giornale sorseggiando una tazza di té. Si scoprì che era afflitto da una malformazione congenita, mai manifestatasi nei cinquant’anni precedenti, quando John Graham Mellor era passato da un’infanzia non comune in una famiglia di impiegati diplomatici (per questo era nato ad Ankara) all’adolescenza hippie e poi alla folgorazione punk e ai palchi di tutto il mondo prima con i Clash e poi con i progetti successivi.

PHIL OCHS, che di canzoni e protesta ne sapeva qualcosa sosteneva che per fare la rivoluzione serviva che «Elvis Presley diventasse Che Guevara». Questo intreccio tra politica e cultura, tra guerriglia e rock and roll, si è materializzato nella figura di Joe Strummer: ascoltare la sua musica significa entrare in un campo di battaglia immaginario e concretissimo fatto più di immagini e storie che di slogan di facile consumo. Ma qual è il senso politico di tutto ciò? Se lo chiede Gregor Gall nel volume The Punk Rock Politics of Joe Strummer (Manchester University Press, pp. 296, sterline 16,99 ). Docente di relazioni industriali alla University of Glasgow, Gall passa al setaccio una vasta bibliografia i testi, le interviste, i racconti di chi stava accanto a Strummer. E li intreccia con il contesto, cioè con il modo in cui interagiscono con la società, la critica musicale, il pubblico. L’obiettivo è chiarire come Joe Strummer considerasse il suo essere «di sinistra» (si dichiara a seconda delle volte socialista, marxista, rivoluzionario, umanista) e in che forme tutto ciò abbia influenzato il senso comune e diverse generazioni di attivisti politici. Il processo non è lineare, ma si possono isolare alcune tracce che la sinistra post-novecentesca dovrebbe riprodurre nella propria playlist del conflitto.

IL PRIMO ELEMENTO potrà sembrare spiazzante. A differenza di tanti artisti politicamente impegnati su posizioni radicali, Strummer dice a più riprese che la musica non può cambiare il mondo. «Puoi solo creare un’atmosfera», spiega a Melody Maker nel 1977. Nello stesso anno a Record Mirror ribadisce: «Vogliamo arrivare ad un’atmosfera in cui le cose possono accadere». Questa formula doveva essergli particolarmente chiara perché ritorna anni dopo, in un’intervista rilasciata a Creem nel corso del 1984: «La nostra musica può aiutare a creare l’atmosfera della lotta tra chi ha e chi non ha». E al Globe and Mail aggiunge: «Al capitalismo serve la guerra per sopravvivere. La musica può aiutare la gente a comprenderlo. Il punto è far capire alla gente che può fare la differenza». Gal scomoda paragoni impegnativi con autori come Jack London e Victor Serge: non si proponevano di fare reclutamento e propaganda bensì di diffondere coscienza. Per creare l’«atmosfera» di cui parla, Strummer si infiltra nel mainstream e ne forza le regole. Il giovane che aveva vissuto nelle case occupate di Londra e che finirà per suonare per l’ultima volta accanto ai pompieri in sciopero (che gli tributarono un picchetto d’onore al funerale) sa che per giocare su questo terreno serve un cosa che si guadagna sul campo giorno dopo giorno: la credibilità. Gal ricorda che Strummer ha in più occasioni criticato l’imperialismo sovietico oltre a quello statunitense. Non è solo un antidoto a certe posture staliniste fuori tempo massimo ed è un modo per costruire una dimensione universale. Questa è la seconda caratteristica della scienza politica strummeriana: si può leggere tutta la discografia dei Clash e la sua produzione successiva (uno dei dischi firmati con i Mescaleros si intitola proprio Global a go go) come presa di coscienza della dimensione planetaria dei processi storici.

NELLA SINTESI tra questi due elementi, la dimensione particolare e quotidiana e l’orizzonte globale e universale, folk politics e grande storia, risiede lo spirito positivo che attraversa il corpus della poetica di Joe Strummer. Il messaggio è chiaro, persino ingenuo, e si ricollega alla linea narrativa dell’emancipazione rivoluzionaria: le persone che si alleano e cooperano possono tutto. Con parole sue «Without people you are nothing». Oppure: «Everyone has a story to tell». Fino alla sentenza che suona più che mai in controtendenza quando il ciclo neoliberista che Strummer ha visto e combattuto da vicino nel corso dell’ascesa al potere di Margaret Thatcher annuncia la fine della storia: «The future is unwritten», il futuro non è ancora scritto.
Chi ha la fortuna di abitare nell’arcipelago musicale dei Clash non disdegna di mettersi in viaggio: si avventura volentieri in cerca di altre esperienze sonore. Poi però non può che tornare alla base, one more time in the ghetto, perché i ritmi e le parole strummeriane disegnano un processo costituente aperto e in evoluzione. Colgono la sfida di essere universali e al tempo stesso di parte, per questo risuonano anche nei conflitti contemporanei.