La bibliografia di Mimmo Jodice è sterminata: pubblicazione dei suoi «progetti» (Vedute di Napoli, Gibellina, Mediterraneo, Eden, Perdersi a guardare, Attesa ecc.), cataloghi delle numerose mostre, articoli, interviste: tutta l’evoluzione artistica di colui che oggi è una figura di riferimento. Nel 2003 la monografia Mimmo Jodice, a cura di Roberta Valtorta (Motta editore), analizza il percorso creativo del Maestro, le sue tematiche, il suo modus operandi. Si può dire che oggi conosciamo tutto di lui. O quasi. L’autobiografia Saldamente sulle nuvole, realizzata insieme alla storica dell’arte Isabella Pedicini (Contrasto, pp. 231, euro 22,90), non è una ripetizione di concetti noti e immagini più volte riprodotte e ormai famose a livello internazionale.
In questo libro, è Jodice che parla e fotografa se stesso, la sua vita, il lento percorso per affermare una poetica ed elevare la fotografia a livello di arte. Il volume è corredato da fotografie di persone, amici illustri, incontri preziosi e le immagini, da lui selezionate, sono scelte sulla base delle varie tappe del suo percorso artistico. Con uno stile asciutto, incisivo, privo di retorica, Jodice «si perde a ricordare». Come avviene con la sua fotografia, anche nella prosa i personaggi rievocati «vivono», sullo sfondo di una Napoli inedita: la Napoli degli anni sessanta e settanta, città ricca di iniziative culturali, ritrovo di artisti di tutto il mondo – pittori, architetti, scultori, scrittori. Costretto a lasciare gli studi e a mettersi a lavorare all’età di dieci anni, Jodice trova il tempo di immergersi in questo contesto e di assorbirne le idee nuove, i progetti audaci. Nello stesso tempo non perde di vista l’altra faccia di Napoli, la miseria, il dolore, la sofferenza: il quotidiano da cui non può distogliere lo sguardo. Ma, come dichiara egli stesso, traduce tutto in un linguaggio metafisico («amo molto il Surrealismo e la Metafisica»). Fotografa l’orrore ma non dimentica la forma: «l’attenzione alla forma oltre che al contenuto è fondamentale nella mia ricerca».
Ecco la parola chiave: ricerca. La poetica di Jodice si forma nella camera oscura, dove può studiare le immagini, elaborarle, infondere calore e vita ai soggetti più disparati, o fissarli in un vuoto irreale, in un’atmosfera di sogno. La sua filologia ha regole precise, che ormai sono note a tutti: rifiuto di cogliere «l’attimo fuggente» («è una prova di virtuosismo») , la scelta del bianco e nero («Il colore definisce il tempo e lo spazio, mentre il bianco e nero contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, atemporale»), l’attenzione alla bellezza formale, la volontà di dare un significato a ogni soggetto fotografato, siano antichi reperti o inquadrature di città famose (Roma, Boston, Montréal, São Paulo), un significato che nasce «dal profondo della mia psiche», per cui «chi guarda le mie fotografie, guarda i miei pensieri». Il soggetto da fotografare si forma per prima cosa nell’occhio del Maestro , dopo una lunga attesa, secondo la felice formula del «perdersi a guardare» mutuata da una frase di Fernando Pessoa, che diventa uno dei princìpi fondamentali della sua ricerca. «Osservare, indagare con gli occhi, con la mente, perdermi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà».
Definire il risultato di questo atteggiamento non è facile, nonostante gli innumerevoli tentativi di raccogliere in una formula l’essenza del suo lavoro. Ricordiamo tuttavia le parole di Maurice Blanchot citate da Barthes nei suoi appunti sulla fotografia: «l’essenza dell’immagine è di essere tutta esteriore, senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea dell’interiorità; di essere senza significato, pur evocando la profondità di ogni possibile senso; non rivelata e tuttavia manifesta, possedendo quella presenza-assenza che costituisce la seduzione e il fascino delle Sirene» (La camera chiara, Einaudi 1980).
Il racconto autobiografico è succinto, come si è detto, tuttavia emana una forza, uno slancio vitale, in cui la gioia di creare, di vivere, si unisce all’apertura verso gli altri, all’empatia suscitata e ricambiata, per cui i capitoli pullulano di nomi, celebri e non, con cui Jodice ha condiviso idee e realizzato mostre. Gli occhi del Maestro sono acuti e penetranti, tuttavia guardano lontano, oltre la realtà. La realtà, saldamente ancorata alla terra, è la moglie Angela, donna solare dall’incantevole sorriso: è lei la «roccia», il riferimento costante, con le sue scelte coraggiose, il suo ottimismo, la sua profonda fiducia nell’arte del marito e nella vita. Quando si dice Jodice si deve intendere «Mimmo e Angela Jodice». Senza Angela, forse Mimmo non avrebbe superato la sua segreta angoscia, la «camera oscura» della sua anima: «mi porto dentro i vecchi fantasmi della mia infanzia. Di vera miseria, di violenze subite che mi procurano angoscia e paradossalmente anche forza».
Il buco nero di questa infanzia, da lui definita «terribile» e alla quale «mi chiedo come sia riuscito a sopravvivere» è narrata nel primo capitolo, con distacco amaro ma controllato. L’infanzia è dunque la camera oscura di Mimmo Jodice, che molto presto impara il dolore (e sa tradurlo poi in immagine) ricavandone la forza per sopravvivere. La camera oscura, quella reale in cui egli inizia la sua vera vita, è il luogo della rinascita, l’inizio del cammino verso il successo, verso la luce.