Lavoro

Jobs Act, riforma a licenziamenti crescenti

Jobs Act, riforma a licenziamenti crescenti

Renzismi La riforma del mercato del lavoro è uno zombie utile da presentare solo ai vertici europei, per ottenere le lodi della Merkel in cambio di qualche briciolo di «flessibilità» in più per i bonus elettorali di Renzi. La verità è un’altra. Secondo ai dati del ministero del lavoro, eliminato l’articolo 18 le aziende licenziano (+7,4%); tagliati gli sgravi contributivi, i contratti a tempo indeterminati continuano a calare (-29%). Tutto secondo la norma. Peccato che il governo abbia raccontato altro negli ultimi due anni

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 10 settembre 2016

Crollano i contratti a tempo indeterminato e aumentano i licenziamenti. La logica del Jobs Act è stata, infine, registrata anche dal sistema delle comunicazione obbligatorie del ministero del lavoro che ieri ha pubblicato l’aggiornamento dei dati sullaq riforma renziana per eccellenza, quella lodata da Angela Merkel come «impressionante». Impressionante lo è, in effetti, questa riforma, ma non nel senso del successo celebrato, con poca convinzione e come un disco rotto, a bordo della portaelicotteri Garibaldi e a largo di Ventotene nel dimenticato vertice Italo-Franco-Tedesco di fine agosto.

In primo luogo l’occupazione «stabile» diminuisce, perché sta calando la droga degli incentivi finanziati dal governo per sgravi contributivi dei neo-assunti. Aumentano invece i licenziamenti – sia per la crisi, ma soprattutto perché il Jobs Act li ha liberalizzati. In un tempo relativamente recente questo stupido e insapore inglesismo è stato usato per celebrare la nascita del 47esimo contratto precario: quello a «tutele crescenti». I primi dati sui licenziamenti dimostrano che l’unica cosa che cresce nel mercato del lavoro italiano è la libertà di licenziare senza l’articolo 18.

Ecco i numeri: +7,4% licenziamenti sul secondo trimestre 2016, +17,4% sul primo trimestre 2016. Tra le altre cessazioni sono aumentate quelle promosse dal datore di lavoro (+8,1%) mentre si sono ridotte quelle chieste dal lavoratore (-24,9%). Nel secondo trimestre del 2016 sono state registrate 2,45 milioni di attivazioni di contratti nel complesso a fronte di 2,19 milioni di cessazioni. Interessante il dato sull’aumento delle cessazioni richieste dal datore di lavoro rispetto a quelle richieste dal lavoratore: la differenza attesta che si è tornati a licenziare, con le nuove regole, nel 2016. A riprova che qualcosa nel Jobs Act si è inceppato c’è il dato sulle attivazioni: rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, nel secondo trimestre dell’anno in corso sono diminuite del 29,4%, cioè 163.099 posizioni. Dato già conosciuto da numerose rilevazioni dell’Inps che trova oggi conferma in quello elaborato dal ministero del lavoro. Considerata la dispersione della raccolta dei dati sull’occupazione, divisa tra Istat Inps e Ministero, si assiste a una convergenza già in atto da mesi e ieri nemmeno manipolata come di consueto dal governo. Va ricordato che la differenza tra questi dati e quelli dell’Inps sta nel considerare tutto il lavoro dipendente, compreso quello domestico, agricolo e nella pubblica amministrazione, oltre che dei contratti di collaborazione.

Altro dato interessante sull’occupazione esistente: la maggior parte è a termine. Bisogna inoltre considerare che un’altra parte è il risultato di una stabilizzazione dei contratti in corso: 84.334 sono contratti «trasformati»: 62.705 da tempo determinato e 21.629 da apprendistato a tempo indeterminato. Dunque chi già lavorava continua a farlo, per fortuna. Chi non aveva un posto, continua ad essere disoccupato, o a lavorare con i voucher, ad esempio. L’occupazione aumenta tra gli over 50 e non tra gli under 49.

Questi numeri risentono della riduzione dell’incentivo all’assunzione a tempo indeterminato nel 2016. E rende comprensibile il motivo per cui i tecnici di Palazzo Chigi in queste settimane si stanno spaccando la testa per reperire le risorse nella prossima legge di bilancio e allungare di un biennio questi incentivi. Senza questi fondi pubblici elargiti a pioggia alle imprese il bilancio del Jobs Act sarà peggiore. Com’è evidente sin dall’inizio, infatti, una volta terminati gli incentivi, l’occupazione tornerà a livelli confacenti a un periodo di crescita senza occupazione fissa, deflazione e stagnazione. Ovvero, alla situazione che Renzi, Padoan e il governo tutto hanno cercato di nascondere mettendo in circolo poco più, poco meno, di 10 miliardi di euro per un triennio di risorse pubbliche ad uso di privati.

«Il tonfo del Jobs Act è ormai certificato» sostiene Arturo Scotto, capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana». «Ministero reo confesso, il Jobs Act è un fallimento» concludono i parlamentari Cinque Stelle. Cesare Damiano (Pd) ritiene che sia venuto «il momento di porsi seriamente il problema della manutenzione del Jobs Act. è prematuro decretare la morte». Probabilmente è vero: la renzianissima riforma è uno zombie agitato nei vertici europei per chiedere la grazia della «flessibilità». Ai danni dei precari e disoccupati.

I sindacati sono preoccupati. Per il segretario confederale Giuglielmo Loy «occorre ancora dare ossigeno all’unico strumento di tutela per imprese e lavoratori, la cassa integrazione, rendendola più flessibile nella durata». Per tutti gli altri non coperti da questa misura occorrerebbe un reddito di base. Ma nel paese delle riforme del lavoro «non-ancora-morte» e della crescita-raso-zero nessuno si pone il problema delle tutele universali.

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