Lavoro

Jobs Act, la riforma funziona solo quando lo decide Renzi

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Occupazione Istat: nel secondo trimestre 2016 (aprile-giugno) l’occupazione è aumentata di 189 mila unità. Ma in una precedente rilevazione di luglio era stata già registrata una diminuzione. Aumentano i contratti a termine mentre, al netto delle trasformazioni contrattuali, cala il numero dei nuovi lavoratori a tempo indeterminato. Ignorando gli altri dati del ministero del Lavoro e, in precendenza dell’Inps, il governo si mobilita per celebrare un successo. Sulla riforma del lavoro continua il grande imbroglio dei numeri. L'opacità dei dati sull'occupazione è un'emergenza democratica

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 13 settembre 2016

Dopo avere taciuto sui dati negativi dell’occupazione comunicati a luglio dal’Istat (-11 mila assunzioni rispetto a giugno) e qualche giorno fa dal ministero del lavoro, il premier Matteo Renzi ieri ha scritto in un tweet trionfante: «Dati ufficiali Istat di oggi. Nel II trimestre 2016 più 189mila posti di lavoro. Da inizio nostro governo: più 585mila. Il #JobsAct funziona». E, dopo essere stato smentito dal proprio ministero venerdì scorso, secondo il quale i licenziamenti nel secondo trimestre 2016 sono aumentati, anche il ministro del Lavoro Poletti ha ritrovato la parola: «Il Jobs Act funziona, si conferma il trend di crescita dell’occupazione».

Ciò che in realtà aumenta è, come sempre, il lavoro a tempo determinato (+3,2 sul trimestre, +3 su anno), mentre cresce meno il tempo indeterminato (+0,3 sul trimestre, +2,1 sull’anno). Aumentano gli occupati tra i 15-24 anni e tra i 25-34 anni (+233 su base annua), ma il problema è che i dati di luglio li hanno dati in calo. Si conferma, inoltre, l’effetto della riforma Fornero che ha obbligato i lavoratori anziani a restare al lavoro: questa situazione riguarda gli over 50 fino a 64 anni (103mila sul primo trimestre e 310mila su anno). Continuano a calare i lavoratori tra i 34 e i 49 anni (-111 mila sull’anno), ovvero quella che dovrebbe essere la fascia più «produttiva» della popolazione. È la rappresentazione di un mercato del lavoro dove, alla base, prevale il precariato e, in alto, il lavoro subordinato precarizzato e impoverito. Molto entusiasmo ha suscitato il dato sul calo della disoccupazione giovanile: 35,1%. Un dato che a luglio è tuttavia tornato a crescere.

Soddisfazione anche per il calo dei Neet nella fascia di età 15-29 anni (oggi sono poco più di 2 milioni). Ma buona parte di questo dato è dovuto al rumore di fondo prodotto dalla mobilitazione creata dal ministero attraverso la fallimentare «Garanzia giovani»: basta essere «presi in carico» dal sistema e avere una proposta di tirocinio per essere registrati tra gli «attivi» e quindi aumentare la statistica. Che poi questo tirocinio si trasformi effettivamente in un’attività è un altro discorso. All’8 settembre i giovani partecipanti erano 756.036, a 383.584 è stata fatta una proposta. Le aziende che hanno aderito al progetto sono 2.441 che hanno accolto 3255 tirocinanti. Dati che attestano l’estrema volatilità della situazione. La crescita dunque esiste, ed è una sola: cresce il precariato, senza contare i voucher, non il tempo indeterminato, e tantomeno i «contratti a tutele crescenti» – in calo da mesi a causa del taglio degli sgravi alle imprese – sul quale il governo si è giocato la credibilità.

Questo uso cinico dei numeri affonda le sue radici sul caos delle fonti sull’occupazione: sebbene l’abbia promesso l’anno scorso, proprio in questi giorni, il governo non ha proceduto all’unificazione dei dati provenienti da Istat, Inps e Ministero del lavoro. Non è un caso che su questa totale mancanza di trasparenza e uniformità si fondi la sua propaganda. Va ricordato che quella dell’Istat è una rilevazione degli stock, ovvero la quantità di occupati, disoccupati e inattivi in un determinato momento. L’Inps, e il ministero del lavoro, registra i flussi del mercato del lavoro in un intervallo di tempo, ragiona sull’inizio e la cessazione dei contratti, considera le posizioni lavorative dal punto di vista fiscale, escludendo il lavoro domestico, degli operai agricoli, dalla P.A. La differenza è tra contratti e persone. Una persona occupata può avere più di un contratto, e relativa cessazione. I dati non si escludono, ma presi separatamente sembrano dire cose opposte. L’aumento delle cessazioni registrato dal ministero può convivere con l’aumento dell’occupazione: la stessa persona può attivare e chiudere più contratti a termine. Un movimento che conferma quella che il giuslavorista francese Alain Supiot ha definito «mobilitazione totale» dei lavoratori: l’occupazione oggi è sinonimo della mobilità tra un contratto e l’altro. Non conta avere un «lavoro», ma risultare «occupabile» all’occhio governamentale delle statistiche.

«Nessun dato Istat dimostra l’efficacia del Jobs Act. Le rilevazioni sono già superate da quelle non positive di luglio, che vedono gli occupati di nuovo in calo, ma anche stando ai dati diffusi ieri l’apparente ripresa della domanda interna si è già esaurita. Serve una terapia shock rivolta alle emergenze sociali: disoccupazione giovanile e femminile» sostiene Riccardo Sanna della Cgil che segnala l’aumento delle ore lavorate (+0,5% sul trimestre e del 2,1% sull’anno). Gli occupati restano pochi rispetto all’inizio della crisi, lavorano molto di più a salari decrescenti. «Il tema vero – sostiene Guglielmo Loy della Uil – è la crescita bassa e insufficiente e con un Pil quasi immobile è complicato aspettarsi una risalita significativa del tasso di occupazione, vero termometro del mercato del lavoro».

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