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Joan Didion, scrivere sull’orlo di un autoritratto

Joan Didion, scrivere sull’orlo di un autoritrattoGustaw Gwozdecki, «Autoritratto, apocalisse», 1900 ca.

Joan Didion 1934-2021 Un ricordo dell'autrice e del suo stile, che procedendo per epifanie icastiche incarna l’oscillazione della cultura americana tra enfasi millenariste e pragmatismo quotidiano

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 2 gennaio 2022

Quando ho appreso della scomparsa di Joan Didion, lo scorso 23 dicembre nella sua casa di New York, per una di quelle strane coincidenze cui ho imparato a prestare un’attenzione forse eccessiva nel corso degli anni, ero connesso alla rete per cercare quadri su Google e mi stavo soffermando su un dipinto del 1904 opera di Gustaw Gwozdecki, pittore ignoto ai più, in cui è raffigurato un giovane. Il corpo è pressoché immerso nel buio, salvo il viso che risulta perciò inquietantemente scavato e sospeso. Più che il ritratto di un vivente, sembra un teschio emerso sulla superficie di uno stagno di tenebre.

Il titolo Autoritratto, apocalisse conferma l’ impressione, favorendo peraltro questa ipotesi: quando un autoritratto è sincero, guardare nel fondo di sé stessi non equivale un po’ all’affacciarsi sull’orlo di un abisso? Joan Didion ha scritto, appunto, opere di questo tipo. Dava il meglio quando metteva molto di sé in gioco, quando il testo, qualunque fosse l’argomento trattato, passava attraverso la sua esperienza personale. A volte, ma non necessariamente, l’esperienza soggettiva arriva a assumere la forma del memoir vero e proprio, come nel caso dell’Anno del pensiero magico il cui incipit è ormai un refrain dei nostri tempi: «La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione».

Oltre i recinti della finzione
Quelle parole – stampate in corsivo perché erano un’autocitazione – non servivano soltanto a introdurre il dolore affrontato nel libro, la grave malattia della figlia Quintana e la morte del marito John Gregory Dunne, compagno di una vita con il quale aveva lavorato alla sceneggiatura di film come Qualcosa di personale, L’assoluzione, È nata una stella. Erano anche una dichiarazione poetica, un compendio – e vai sapere quanto volontario – del modo in cui da sempre la scrittrice osservava le cose, un modo che traspare tanto nei suoi pochi romanzi, a cominciare dall’esordio di Run, River, datato 1963, quanto e soprattutto nella parte assai più corposa della sua opera, quella che esula dalla narrativa, articoli raccolti in volume e comparsi in origine su «Vogue», dove da giovanissima iniziò la sua carriera, e in seguito su «The Saturday Evening Post», «Life», «Esquire».

Le bastava mettere l’occhio su qualcosa, perché ne emergesse il lato critico, una crepa che annunciava un crollo di qualche tipo, il momento fatidico menzionato nell’incipit dell’Anno del pensiero magico, quello in cui la vita abituale cessa di esistere. Quando l’eccidio di Cielo Drive perpetrato dalla «Famiglia» Manson annientò in un baleno gli anni Sessanta e le sue rivolte, le sue utopie, le sue beate sventatezze, Didion scrisse: «Ricordo un periodo in cui i cani abbaiavano ogni notte e la luna era sempre piena». Una frase che voleva dire tutto e niente, ma proprio per questo azzeccata e potente. Pescata dal cilindro della memoria, sia personale sia collettiva, l’immagine suonava premonitrice, anche se in senso retrospettivo. Di questo modo di scrivere, di questo procedere per epifanie icastiche, Joan Didion ha fatto un marchio di fabbrica, la chiave di uno stile inconfondibile, dando sì voce a un tratto della sua personalità ma incarnando anche una inclinazione tipica della cultura americana, sempre sospesa tra l’enfasi del millenarismo biblico e il prosaico pragmatismo del quotidiano.

«Questo è il paese in cui la fede nell’interpretazione letterale del Genesi è scivolata impercettibilmente nella interpretazione letterale del film La fiamma del peccato» sentenziava parlando della sua California. Gli americani, lo sappiamo, sono maestri nel mettere la realtà su un piedistallo, a partire da quella più triviale e all’apparenza svuotata di significato, per farne un simbolo di qualcosa, un monolite lustro e oscuro da adorare e studiare con la riverente soggezione delle scimmie in procinto di fare un salto, non si quanto evolutivo o involutivo.

Joan Didion è stata la maestra dei maestri di questa arte e lo è stata in maniera diversa da come possono esserlo stati Edward Hopper e Andy Warhol in pittura o Don DeLillo in narrativa, perché lo è stata soprattutto da giornalista.
Dovessimo ricordarla soltanto per i suoi romanzi pure apprezzabili, la archivieremmo come una onesta scrittrice o poco più. È invece nell’abbandonare i recinti della finzione, nel misurarsi con il circostante, con i fatti e il costume, che Didion ha letto e anticipato i tempi come pochi altri. Poco oltre la metà degli anni Novanta fece molta impressione il racconto che David Foster Wallace riportò della sua esperienza a bordo di una nave da crociera: Una cosa divertente che non farò mai più.

Quel famosissimo reportage narrativo apparso nel 1996 con un titolo diverso su «Harper’s», nacque da un’idea di Colin Harrison, editor della rivista: mandare Wallace in luoghi privi di particolarità evidenti salvo l’essere tipicamente americani, nella certezza che il vero viaggio per il lettore non consistesse tanto nella destinazione quanto nel mezzo di trasporto, la mente dello scrittore.

Didion praticava questa forma di giornalismo già negli anni Sessanta, quando la locuzione New Journalism non era ancora stata coniata e bisognava reggere il confronto con maschi pieni di sé quali Norman Mailer, Hunter S. Thompson e naturalmente Tom Wolfe. Negli anni Sessanta e Settanta, saltabeccando tra John Wayne e Jim Morrison, tra una giovane Nancy Reagan e Joan Baez, tra l’industria dei matrimoni di Las Vegas e le aporie del femminismo, Didion infilò una serie di pezzi fulminanti, istantanee senza pari di quell’epoca. Verso Betlemme e The White Album, i libri in cui sono raccolti quelli e altri pezzi, hanno finito con il diventare un punto di riferimento imprescindibile per le generazioni future. Perché oltre a essere stata molto letta e amata, Joan Didion è stata e continua a essere molto imitata.

Prima del personal essay
Bret Easton Ellis ne è stato a tal punto influenzato, anzi ossessionato – come ha lui stesso ammesso – da nominarla sua «maestra di stile». È il segno che Didion ha lasciato su chi si cimenta in un genere sempre più diffuso, il personal essay, come viene chiamato oggi il ricorso a sé stessi, alla propria biografia, ai propri dolori, alle proprie idiosincrasie come cartine di tornasole del mondo intero. Joan Didion ci ha rivelato che il simulato conflitto tra realtà e finzione tipico del postmodernismo ne nascondeva un altro, ben più denso di prospettive, quello tra mondo privato e pubblico. Un conflitto che in tanti praticano ormai come niente fosse, anche se non sempre informati quanto quella maestra di stile sulle implicazioni dello scrivere sull’orlo di un abisso, ovvero del proprio autoritratto: «il gesto di dire Io, di imporsi agli altri, di dire, ascoltami, guarda ciò che vedo, cambia idea, seguimi. È un gesto aggressivo – perfino ostile. Puoi mascherare gli aggettivi, raffinare le congiunzioni, adottare ellissi, evasioni – e accennare più che pretendere, alludere più che affermare – ma mettere parole su carta resta la tattica del bullo segreto, un’invasione, l’imposizione della legge dello scrittore nello spazio più intimo del lettore».

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