Visioni

Joan Baez, viaggio distopico dentro la storia dell’America

Joan Baez, viaggio distopico dentro la storia dell’AmericaJoan Baez in un frame tratto dal documentario «I Am a Noise»

Cinema «I am a Noise», documentario confessione con materiale di repertorio: la marcia con Luther King, l’attivismo, Dylan. Domani (ore 20.30) proiezione milanese alla Fondazione Prada.

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 24 novembre 2023

In una delle tappe del tour d’addio nel 2018, una band latinoamericana suona rumorosamente nella piazza sotto il suo albergo. Joan Baez scende, incoraggia i ragazzi, comincia a ballare freneticamente e a dimenarsi al ritmo dei tamburi, con la chioma imbiancata e a piedi nudi. Alla mirabile età di 78 anni, ha ancora la carica strabiliante del suo esordio al Club 47, su Harvard Square, scalza con la chitarra a tracolla, il trampolino che la porterà all’esibizione trionfale del Newport Folk Festival, nel 1959. Le immagini nuove e antiche fanno parte di I Am a Noise ( io sono un frastuono), il documentario di 113 minuti, presentato a Firenze e domani alle 20.30 a Milano in anteprima alla Fondazione Prada (acquistato dalla Magnolia in attesa di una distribuzione italiana, in lingua originale con sottotitoli), nato per testimoniare il suo Fare Thee Well Tour attraverso gli Statiuniti e l’Europa poi trasformatosi in un’autobiografia visuale.

UNA CONFESSIONE emozionante con tanto materiale di repertorio, dai filmini amatoriali alle interviste televisive, la marcia con Martin Luther King e la storia d’amore con Bob Dylan, i programmi radiofonici e i nastri delle sue registrazioni inedite, le sedute dallo psicanalista e i diari adolescenziali con disegnini e fiori (da lì arriva lo strano titolo, da una frase annotata sulla sua agenda giovanile, dalla baldoria scatenata con le sorelle e i genitori facendo cori e ritornelli in auto), tutti ordinati in pile di scatoloni -ognuno con la sua dicitura precisa- nel sotterraneo della sua casa in Silicon Valley.

MESSO A PUNTO da tre registi -Karen O’Connor, Miri Navasky e Maeve O’Boyle – coprodotto da Patti Smith, il coerente e intimo ritratto della leggendaria folksinger è un viaggio dentro la storia dell’America ma soprattutto dentro l’anima tormentata di una sua icona assoluta, passata in mezzo secolo di carriera da Pete Seeger a Barack Obama. La voce d’usignolo, cristallina e lineare, ha incantato diverse generazioni – genitori, figli e nipoti- e milioni di persone nel mondo, continuando a ispirare artisti molto più giovani come Taylor Swift che l’ha voluta ospite sul palco e Natalie Merchant di cui ha ripreso alcuni brani.

Una confessione emozionante con tanto materiale di repertorio,

ATTIVISTA non violenta, schierata apertamente contro la guerra nel Vietnam, la segregazione razziale, l’orrore della pena di morte, Joan Chandos Baez viene da una famiglia borghese californiana, la madre d’origini scozzesi, il padre matematico messicano che molesterà lei e le sorelle, Mimi che divenne Mimi Farina, la metà di un duo di successo col suo compagno cantautore e scrittore Ricardo Farina e Pauline, scomparsa da qualche anno ma presente nel film con frammenti d’intervista. Nel 1967 Joan Baez ha vissuto, in una comune pacifista vicino Stanford, ed è stata imprigionata per una manifestazione contro la leva, in carcere ha incontrato David Harris, giornalista e militante, l’ha sposato, ha avuto un figlio Gabriel (che attualmente suona le percussioni nella sua band d’accompagnamento) e poi si è rapidamente separata.
«I was the right voice at the right time», la voce giusta al momento giusto, confessa la musicista oggi avanti con gli anni e orgogliosa dei capelli d’argento, con la fiera determinazione compagna di tutta la vita, con quella bellezza sorridente che gli fa ricordare in modo dolorosamente sincero la sua lunga battaglia contro i demoni personali – gli attacchi di panico, la depressione, la paura del palcoscenico, le difficoltà psicologiche. C’era tantissimo buio dietro il suo bellissimo canto, l’ammodernamento della tradizione popolare della folk song e della canzone di protesta. Numerosi esaurimenti nervosi e quasi un decennio di dipendenza dal qualude non hanno intaccato le sue battaglie a colpi di chitarra da Woodstock a Wight fino alle marce affianco al leader della comunità omosessuale Harvey Milk, il Live Aid londinese del 1985, a Sarajevo durante la guerra dei Balcani, nel tour Cospiracy of Hope per Amnesty International.

E POI CI SONO le canzoni, l’iniziale Oh Freedom, un antico gospel afroamericano diventato un inno delle lotte per i diritti civili oppure There but for Fortune, una tipica ballata di Phil Ochs e naturalmente gli indimenticabili traditional Go with me to that land, Fare Thee Well, Amazing Grace con quelle due preziose perle, When the Ship Comes In e It Ain’t Me, Babe, intonate insieme con Bob Dylan anche se lei, forza della natura, voce da tre ottave e vibrato ineguagliabile, può continuare a sposare tutte le battaglie giuste, alternando C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones in italiano alle strofe in farsi di We shall overcome, dritta in piedi per le donne iraniane.

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