Nel 2008, Hana Tomášková torna dall’estero dopo un’assenza di quindici anni con un elenco di dodici nomi appuntati in aereo su un foglietto. Indicano i legami familiari e affettivi che la protagonista ha abbandonato nella Boemia meridionale e che intende ora, dopo che il dispotico padre ha subito un’operazione, chiarire una volta per tutte. Ha così inizio la ricostruzione retrospettiva degli antichi traumi della protagonista, che porta dentro di sé problemi nascosti sotto ceneri ardenti. Tutto il romanzo si snoda sul sottile equilibrio tra la forza centripeta, che la spinge verso il paesino natale ormai sommerso dall’acqua, e le forze centrifughe, che l’hanno portata ad attraversare mezzo mondo.

Jirí Hájícek (1967), uno dei narratori cechi più premiati della sua generazione, arriva ora nelle librerie italiane con Sangue di pesce, romanzo del 2012 pubblicato da Keller editore nella traduzione di Angela Zavettieri (pp. 446, euro 19). L’autore ha avuto in Italia una certa sfortuna: il suo libro più famoso, Barocco rustico, è stato infatti tradotto nel 2009 da un minuscolo editore di Udine, senza essere nemmeno distribuito nelle librerie. Grande merito va quindi alla casa editrice Keller, che continua nel suo lavoro di scoperta di autori trascurati dall’editoria italiana, anche se questa traduzione conserva pesanti tracce della lingua originale.

Jirí Hájícek

IL TITOLO AMBIGUO e accattivante ha con il romanzo un rapporto evocativo e, più che alla storia vera e propria, potrebbe rimandare a un’omonima grafica di Gustav Klimt.

La narrazione di Sangue di pesce copre dieci anni chiave per la Boemia meridionale. Chi è andato a Praga in macchina non può non aver notato la lunga fila di cartelli contro il nucleare in Austria prima della frontiera. Le proteste contro la costruzione della centrale di Temelín rappresentano una delle tante frizioni che hanno avuto luogo in tutt’Europa tra diritti degli abitanti e interessi energetici dei paesi. Sullo sfondo della vicenda di Cernobyl, del centralismo comunista e della totale assenza di informazioni, Hájícek intreccia una serie di tragici eventi della vita di Hana, che arrivano fino alla nuova epoca di «libertà» successiva al 1989, che ripagherà però la comunità locale con analogo disinteresse.

NEL 1983 LA TRANQUILLITÀ soporifera della campagna boema viene spezzata da un’arida lettera che informa le istituzioni di paesi che restano in tutto il romanzo senza nome (in quanto ormai cancellati dalle cartine geografiche?) dell’intenzione di costruire una centrale nucleare e, di conseguenza, la diga artificiale necessaria al suo raffreddamento. Inizia allora la lotta istintiva contro l’altezza al di sotto della quale le case sarebbero state sommerse, la famigerata quota 370,5. Sangue di pesce non è però un romanzo a tema ecologico, piuttosto una sorta di requiem in memoria del legame dell’uomo con i luoghi, che per certi aspetti ricorda la comunità scomparsa simboleggiata dal campanile sommerso di Curon del romanzo Io resto qui di Marco Balzano.

Atmosfere e drammi dell’epoca vengono osservati attraverso lo sguardo spesso ingenuo e accomodante di una ragazza alle prese con lo sfaldamento della sua famiglia e del proprio ambiente («vuoi sempre aggiustare cose di cui non sai niente», le dirà alla fine del romanzo il fratello, dopo anni passati in prigione).

SENZA PARTICOLARI sperimentalismi narrativi, Hájícek ha la capacità di scandagliare con leggerezza e malinconia gli angoli oscuri della storia del Novecento. Nel suo libro più famoso, Barocco rustico, del 2005, aveva affrontato il drammatico tema della collettivizzazione delle campagne negli anni ‘50. Vista attraverso lo sguardo stralunato di un protagonista-outsider, un malinconico archivista, perfino la delazione che costituisce lo snodo principale del romanzo, acquisisce un significato diverso. Tra memoria individuale e memoria collettiva si è infatti spalancata una voragine incolmabile.

In Sangue di pesce gli abitanti cercano invano di opporsi ai trasferimenti coatti in case prefabbricate costruite appositamente nelle città vicine, dalle cui finestre saranno poi costretti a osservare i reattori della centrale. I personaggi principali, semplici adolescenti, inizialmente immersi in una soporifera vita provinciale, con le loro complesse situazioni familiari, gli umili lavori, i concerti di provincia, gli amori giovanili, il tradimento delle amicizie, vengono progressivamente schiacciati dagli eventi.

Lo stile asciutto dell’autore mira soprattutto a indagare i rapporti tra i personaggi, a partire dal misterioso incidente stradale che condensa tutti i traumi rimossi e nascosti in profondità, ma sempre pronti a emergere in superficie.

La lotta impari di una comunità sempre più piccola non può che portare a una sconfitta: «noi che eravamo rimasti eravamo solo una manciata di naufraghi disperati». Perché, come scoprirà a fatica la protagonista, il passato non è, né mai sarà, un elenco di nomi che basta cancellare per rimuovere i traumi della propria vita.