Postumo l’ultimo album del cantante afroamericano Jimmy Scott: I Go Back Home. A story about hoping and dreaming (Eden River Records, distr. Family Affair). Il disco è intrecciato al documentario omonimo, regista Yoon-Ha Chang: 96 minuti di riprese tra California e Germania presentati in febbraio alla capitolina Casa del Cinema per iniziativa di Luciano Linzi (coordinatore del comitato artistico della Casa del Jazz) ma ancora senza distribuzione in Italia.

I go back home è un vero atto d’amore nei confronti di uno dei cantanti più «sui generis» del jazz e della black music, amato da Ray Charles e Marvin Gaye, dal songwriter Doc Pomus e dal regista David Lynch, da Lou Reed e Joe Pesci. Un atto d’amore del produttore tedesco Ralf Kemper che ha molto investito (ha venduto il proprio studio di registrazione) per realizzare un ritratto sonoro che è un omaggio all’84enne Jimmy Scott (nel 2009, all’epoca delle incisioni; sarebbe morto nel 2014) e si intreccia al dolente ricordo della moglie di Kemper, morta prematuramente.

Dodici brani costituiscono l’album e scandiscono il documentario, realizzati in due studios tra Los Angeles e Las Vegas con un pool di grandi jazzisti (da James Moody a Peter Erskine) ed il cantante in condizioni fisiche precarie: in carrozzella, il corpo minuto, la voce quella straordinaria di sempre. «Jimmy Scott I Love You, Yes I Do» canta D.D. Bridgewater alla fine del suo duetto su For Once in My Life e Maria Pia De Vito – alla presentazione del documentario – ha parlato di «voce perturbante», di saper attraverso il canto «raccontare e raccontarsi». Sì, perché Scott fu colpito in gioventù da una sindrome ormonale che ne bloccò la crescita, determinando una voce dal timbro unico «né maschile né femminile che tocca nell’animo e sa raccontare in maniera dolorosa» (M.P.De Vito) che oggi ha un emulo nell’inglese Antony.

Una carriera sfortunata, la sua, per varie vicende anche discografiche che lo vide riemergere dall’anonimato solo nei tardi anni ’80: il «corpo cantante ha la voce della nascita, sembra un bambino di 12 anni» (ha detto lo sceneggiatore Umberto Contarello). Il viaggio sonoro dell’album va dalla drammatica Motherless Child a Poor Butterfly e gli arrangiamenti abbinano jazz ed orchestra d’archi: A story about hoping and dreaming di un eterno bambino che tredicenne perse l’adorata madre in un incidente stradale.