L’importante mostra di Jimmie Durham, L’umanità non è un progetto compiuto, al Museo Madre di Napoli sta per concludersi (8 maggio), con le sue suggestioni sull’arte, l’identità, l’indigeneità e le loro radicali riconfigurazioni al di là dello «sguardo bianco» (per dirla con Nicholas Mirzoeff) e del suo inquadramento del mondo. Sollecitazioni evocate anche in Terre di confine. La frontera. La nuova mestiza (Edizioni Black Coffee, 2022) della scrittrice chicana Gloria Anzaldúa, di cui hanno parlato in questi giorni, all’università di Napoli L’Orientale, gli esperti di border studies José David Saldívar e Paola Zaccaria, traduttrice del libro in italiano.

Cominciamo quindi con i serpenti, con la vita animale considerata esterna alla nostra, anche se, come tutta la Natura, apparentemente sotto il nostro dominio. Sia Jimmie Durham che Gloria Anzaldúa fanno esplicito ricorso ai serpenti. I serpenti, come noi, fanno parte del paesaggio. Ma si muovono a dispetto dei nostri confini e delle nostre categorie. Pensare non a loro ma con loro significa già creare un’azione di disturbo sui nostri impulsi colonizzatori che dominano il resto della vita senziente.

Entrambi gli artisti, nella loro scrittura – e Jimmie Durham anche nel suo lavoro visivo – esplorano questa linea di fuga dall’apparente realizzazione dell’umano, oggi trionfalmente brandita nell’individualismo ignorante del soggetto neoliberale.

ATTIRANDOCI nelle terre di confine dove la certezza dell’identità – eteronormativa, bianca, nativa – si sgretola nelle continue negoziazioni di luogo, transito e appartenenza, questi artisti ci spingono oltre noi stessi. Più in profondità, ci costringono a confrontarci con le eredità del colonialismo, con la vita nella colonia bianca degli Stati Uniti che definisce non solo un’agenda politica globale, ma anche il suo lessico e le sue definizioni di «libertà» e «democrazia».

La straordinaria Malinche variopinta e scomposta di Jimmie Durham, tutta legno, brandelli di stoffa, lana, pelle, piume, conchiglie, e collana in frammenti di plastica, attraverso il collage racconta un soggetto composito, meticcio, che fa da transito tra il colonizzato e il colonizzatore, tra la sponda americana, transatlantica e mediterranea. E sembra un segno del destino che questa ricucitura di una rotta marittima di cui si è persa la memoria riporti adesso a Napoli.

Emblema di colei che avrebbe tradito la propria gente di appartenenza, facendosi traduttrice e amante del conquistador Hernán Cortés (che lascia la sua traccia anche nella Villa Pignatelli Cortes su Riviera di Chiaia a Napoli), Malinche è l’immagine della lingua biforcuta, come quella del serpente, per diventare, anche in Gloria Anzaldúa, la rivendicazione di tante appartenenze, sempre in fuga dai tentativi di ingabbiamento dell’identità (l’imbalsamazione dell’identità, per dirla con José Saldívar).

In un libro della teorica nativa americana Jodi A. Byrd, The Transit of Empire: Indigenous Critiques of Colonialism, che Durham aveva letto poco prima della sua morte, si legge di coloni bianchi di origine europea che perseguono la felicità attraverso il possesso della terra con «la loro ostinata determinazione a non ammettere mai alcun torto».

NATURALMENTE, lo stesso discorso potrebbe essere applicato a tutte le società di colonizzatori bianchi, agli inglesi in India, o ai francesi in Algeria, come oggi alla popolazione ebraica in Israele. Ciò che entrambi gli artisti aggiungono a questo racconto familiare sono la poetica e la politica di annullare il semplice ritorno a un’identità alternativa o repressa. Entrambi scompigliano e alienano i nostri punti di riferimento.

QUANDO SCRISSE Terre di confine (titolo originale Borderlands/La Frontera) nel 1987, la scrittrice tejana Gloria Anzaldúa non aveva ancora visto l’abnorme distesa odierna di migliaia di chilometri di muro eretto lungo il confine tra il Messico e le terre del sudovest statunitense, che allora erano qua e là disseminate di reti metalliche, lamiere e filo spinato solo tra Tijuana e San Diego, per arginare l’indesiderato, il migrante, il clandestino.

ANZALDÚA AVEVA definito questo confine una herida abierta, una ferita aperta, in cui il primo mondo grattando contro il terzo forma una ferita sanguinante e purulenta che non si rimargina mai. Una immagine che evoca contaminazione, contagio, infezione, ma anche vicinanza, commistione, unione, mescolanza, nascita del nuovo, dell’imprevisto.

La scrittrice Gloria Anzaldúa, lesbica/meticcia/chicana e l’artista Jimmie Durham, cherokee, la cui identità è stata negata quando la Nazione Cherokee ha adottato la logica coloniale della purezza di sangue per rivendicare l’identità razziale, parlano dal fuori luogo in cui la narrazione della nazione si sfalda in un balbettio dinanzi alle complessità che non possono essere assicurate da un passaporto, una bandiera o dal colore della pelle, poiché attingono a memorie rifiutate, in cui il Texas e l’intero sud-ovest degli Stati Uniti facevano un tempo parte del Messico di lingua spagnola.

L’isola delle Tartarughe e il resto del continente erano già abitati dalle popolazioni indigene dallo stretto di Bering alla Terra del Fuoco, prima che iniziassero l’invasione, i massacri e i genocidi. Questo passato atavico delle risposte al colonialismo e anche alla sua critica post-coloniale metropolitana propone una sedimentazione storica e culturale più profonda.

IN UNA SUA POESIA appesa alla parete del museo Madre a Napoli Jimmie Durham si rivolge ai serpenti per cercare l’eloquenza e la schiettezza di un serpente a sonagli, e l’efficacia del morso di un serpente corallo nero e rosso. Contaminare il linguaggio con ciò che non riesce a contenere e distruggere le sue pretese di un’unica verità è ciò che unisce Jimmie e Gloria (così come un’altra donna, nativa: Trinh T. Minh-ha, il cui libro Woman, Native, Other attende ancora di essere tradotto).

Con Gloria Anzaldúa il serpente non è solo la lingua «biforcuta», quello spanglish che unisce, mescola, combina spagnolo e inglese, facendone una nuova lingua, appunto, meticcia, bastarda, clandestina, ma è la sinuosità stessa di un testo serpentino che è come un murale, ricco di frammenti e suggestioni, dove le parole si trasformano di continuo passando dalla prosa alla poesia, dalla storia alla biografia, dall’aneddoto alla teoria, per rimescolarsi in un composto contaminato, misto, disordinato, che è come la materia terrena della vita stessa, dove tutto si combina e si ricompone scavalcando confini e norme.

La divinità invocata nel libro di Anzaldúa è una divinità ctonia, tutta terrena e sotterranea, è il caos primigenio, Coatlicue, la divinità serpente il cui nome è anche quello della grande montagna sacra agli aztechi, prima che i conquistadores l’addomesticassero, trasformandone il nome da Coatlicue a Guadalupe, quella Vergine di Guadalupe che è il volto cattolico con cui si è voluto nascondere il tremendo caos primordiale, la terra, il serpente, l’abisso, la morte, l’antica simbiosi tra uomo, terra, animale.

Il luogo che emerge nelle opere di Gloria Anzaldúa e Jimmie Durham non è fissato in un’autenticità senza tempo, ma è piuttosto indigeno alle stratificazioni della terra e delle lingue che permettono a entrambi gli artisti di emergere e muoversi. Come serpenti che abbracciano il terreno, si liberano della pelle, cambiano posizione e si spostano continuando a portare con sé storie che interrompono le nostre.