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Jihadisti di ritorno in Arabia saudita

Jihadisti di ritorno in Arabia saudita/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/08/29/2014 08 14t111359z 284156722 gm1ea8e1h7k01 rtrmadp 3 saudi stocks investment – Reuters

Intervista a Mouin Rabbani L'analisi del codirettore del think tank Jadaliyya, membro dell'Institute for Palestine studies. "Più chiaro è il ruolo del Golfo in Siria: con lo scoppio della guerra civile, ogni governo ha apertamente sostenuto alcuni gruppi di opposizione, quelli che erano in grado di controllare meglio o quelli che ritenevano più efficaci sul campo. L’obiettivo era fare delle opposizioni siriane gruppi ben organizzati, sempre più radicali"

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 30 agosto 2014

L’Isis spaventa l’intero mondo arabo minacciato dall’obiettivo di al-Baghdadi: la creazione di un califfato sunnita e lo stravolgimento degli equilibri interni. Target non è solo Baghdad o Damasco e quei regimi che negli anni passati hanno permesso la fioritura dei gruppi islamisti sunniti nella regione ora tremano. Ne abbiamo parlato con l’analista palestinese Mouin Rabbani, codirettore del think tank Jadaliyya e membro dell’Institute for Palestine studies.

I paesi del Golfo vengono accusati di aver finanziato e armato i gruppi sunniti estremisti, permettendone l’avanzata in Iraq e Siria, nell’obiettivo di indebolire i governi sciiti di Siria e Iraq.

È difficile provare senza ombra di dubbio tale collegamento, ma è certo è che i paesi del Golfo dal 2003 hanno sia sostenuto l’invasione Usa dell’Iraq, fornendo basi militari e supporto logistico, sia ostacolato politicamente il nuovo regime sciita di Baghdad. Saddam Huissein è sempre stato considerato una barriera all’influenza iraniana e con la sua caduta Teheran ha potuto fare di Baghdad un suo satellite. Altro elemento certo è che nell’ultimo decennio gran parte dei miliziani dei gruppi radicali sono arrivati dal Golfo: seppure manchino prove inconfutabili di un reclutamento di nuovi jihadisti da parte di Riyadh o Doha, sicuramente non sono stati fermati. Le petromonarchie non avevano interesse ad arginare il fenomeno. Più chiaro è il ruolo del Golfo in Siria: con lo scoppio della guerra civile, ogni governo ha apertamente sostenuto alcuni gruppi di opposizione, quelli che erano in grado di controllare meglio o quelli che ritenevano più efficaci sul campo. L’obiettivo era fare delle opposizioni siriane gruppi ben organizzati e sempre più radicali.

Oggi questo atteggiamento sta cambiando?

Il Golfo è stato il primo sponsor di questi gruppi nel tentativo di far fruttare i propri interessi nella regione e di indirizzare le loro energie fuori dai propri confini. Ora il timore è che possano tornare indietro. In Arabia Saudita succede già: una forte ondata di attacchi, portata avanti da miliziani islamisti tornati in patria. Quello che oggi preoccupa le petromonarchie è la trasformazione dell’Isis da gruppo minoritario a forza che controlla significativi terrori in ben due paesi. A ciò si aggiunge la pressione statunitense su Kuwait, Arabia Saudita, Qatar, Emirati, perché interrompano il sostegno ai gruppi islamisti.
La Turchia ha permesso il passaggio di armi e uomini in Siria per rifornire le opposizioni anti-Assad, ma oggi teme un capovolgimento di fronte dopo che l’Isis ha preso di mira anche i kurdi.
Ankara ha sostenuto attivamente i gruppi anti-Assad, armandoli e garantendo loro appoggio logistico, nella convinzione che in pochi mesi avrebbero fatto cadere il regime alawita. Non ha prestato attenzione a chi dava armi e denaro, nell’idea che il conflitto non sarebbe durato così a lungo da permettere a questi gruppi di crescere. L’idea era di usarli come piede di porco per scardinare il regime di Assad, assumere il ruolo di guida del Medio Oriente, influenzare il prossimo governo siriano e quindi isolarli. Ma Assad si è mostrato molto più resiliente del previsto e anche la Turchia è costretta a rivedere la propria strategia. Ankara è un elemento chiave dell’equazione: il confine turco-siriano è uno dei principali fattori di rafforzamento dei gruppi islamisti e infatti in questi mesi l’attività dell’intelligence turca alla frontiera è molto aumentata.

Tra le fonti di guadagno dell’Isis c’è il contrabbando di greggio, alcuni rapporti dicono che tra gli acquirenti ci sarebbe Damasco. È possibile che la famiglia Assad, da decenni impegnata nella repressione dei movimenti islamisti, oggi faccia affari con loro?

Se lo fa è solo per coprire il gap dovuto all’embargo imposto dall’Occidente. Assad non ha sostenuto o avuto contatti diretti con lo Stato Islamico, ma lo ha usato per dimostrare la propria narrativa. Quando il conflitto è scoppiato, Damasco lo ha interpretato come una cospirazione regionale. Quando a farsi avanti sono stati gruppi radicali, il governo li ha mostrati come lo strumento di quella cospirazione terroristica regionale e li ha usati far perdere sostegno popolare a tutte le opposizioni. Tutto qui.

Veniamo all’offensiva israeliana contro Gaza. L’attacco ha mostrato come Hamas sia isolato dal resto dei paesi arabi, eccetto Qatar e Turchia. Su cosa si fonda questo asse Egitto-Arabia Saudita?

Dal 2006, quando Hamas vinse le elezioni, la questione palestinese è divenuta elemento di divisione del mondo arabo: la Palestina è diventata teatro del conflitto regionale, un conflitto per procura tra paesi che appoggiano una fazione e paesi che ne appoggiano un’altra. A questo si aggiunge il sostegno politico e militare dell’Iran al movimento palestinese. Di nuovo a dettare alleanze e equilibri è lo scontro Arabia Saudita-Iran. Per quanto riguarda l’Egitto, invece, dopo il golpe militare dello scorso anno, Il Cairo ha additato nei gruppi stranieri i responsabili di tutti i propri problemi, Hamas in primis perché membro dei Fratelli Musulmani. Questo ha creato una strana alleanza, inimmaginabile prima, tra i regimi conservatori arabi e Israele.

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