Quasi ogni discorso sulla scrittura ruota intorno al concetto di tempo. Scrivere è un duello con un tempo che altrimenti resterebbe inesperito, inattingibile. Scavarci dentro è ciò che fa ogni frase, affonda nel tempo, lo porta su a cucchiaiate.
Non è un caso che la memoria resti lo sparring partner ideale, in ogni discorso, della letteratura. «Scrivere è una macchina per ricordare e formulare», scrive Peter Handke, come a dire che la memoria diventa presente solo se la si guarda da dentro la scritturla, da dentro le parole. La letteratura rende cittadini del tempo.

MENO SPESSO SI RIFLETTE su quanto la scrittura sia un modo di abitare lo spazio. I Racconti romani di Jhumpa Lahiri (Guanda, pp. 256, euro 17), da poco usciti in libreria fanno questo prima di tutto: si prendono Roma con le parole. Vi depositano sopra uno strato di frasi, cosicchè la si possa dire, ancor prima che vedere.
Nei nove racconti che compongono il libro ci sono molti «interni»: una casa fuori città (Il confine), un appartamento rivisitato nel corso del tempo (La festa di P), una casa frequentata per riordini settimanali (Il ritiro), una casa lasciata spesso in disordine (I bigliettini), un’altra piena di luce (Casa luminosa). Roma si infila dai vetri, gli esterni stanno acquattati dovunque. Ma soprattutto in un racconto a suo modo emblematico e magistrale, La scalinata, dove un’umanità di uomini, donne e ragazzi, vanno su e giù dai gradini della scalinata del Tamburino, quella che connette via Dandolo a viale Glorioso, Monteverde Vecchio a Trastevere.
Dopo Dove mi trovo e i versi di Il quaderno di Nerina, Lahiri chiude una specie di trilogia romana, e si ha il sospetto che sia la fine di un ciclo ancora più lungo. Come se ai piedi del Gianicolo si concludesse una parabola cominciata nel 1999, con le nove storie (non per caso) de L’interprete dei malanni che le valsero il Pulitzer nel 2000. Che cos’era, quel libro così lancinante e adamantino, se non un silenziosissimo «canto all’inappartenenza»? Giocato tra Boston, Londra e l’India, tra il bengalese e l’inglese, portava sulla scena letteraria un’autrice la cui scrittura conteneva come una costante scossa tellurica. Un silenzio che era come un’inquieta preghiera per l’appartenenza.

VENTITRÉ ANNI DOPO, Lahiri ripete quel gesto, in una maniera simile ma per certi versi opposta. I personaggi sono tutti in qualche modo stranieri a Roma, alcuni lo sono perché ci sono venuti ad abitare da fuori, altri perché sono romani fin troppo. Molti di loro sono corpi estranei. Una famiglia che si occupa della casa fuori città in cui famiglie diverse ogni anno trascorrono le vacanze; la protagonista di La riunione, cui l’amica, che incontra periodicamente, rimarca l’estraneità con una frase involontariamente sgraziata («Tanto ormai la città è anche tua»), mentre camminano al di là di Ponte Sisto; la protagonista di Dante Alighieri, che vive tra i due lati dell’oceano, in una sorta di pendolarismo atlantico.
Perché sembra che si concluda qui una parabola cominciata quasi un quarto di secolo fa? Che cosa ha in comune Boston con Roma, l’America con l’Italia, l’essere «altri» negli Stati Uniti o in Europa? Che cosa c’entra la scalinata di viale Glorioso con il New England, i ragazzi che bevono birra sui gradini con una giovinezza londinese?

IL CICLO SI CONCLUDE adesso perché questi racconti sono scritti in italiano, lingua con cui Jhumpa Lahiri firma ora il quarto libro, in una lungo percorso cominciato dopo aver iniziato nel 2015 con In altre parole. Che cosa si vuole dire con questo? Che Lahiri ha concluso il suo ciclo sull’inappartenenza andando ad abitare una lingua per così dire straniera.
I nove Racconti romani sono un ritorno all’Interprete dei malanni di una persona che ha trovato la patria nell’inappartenenza – in una lingua terza, altrui, non ricevuta ma trovata – che l’ha scelta come un posto da abitare. Come un affitto che però può anche durare per sempre. I testi di questo libro, così limpido e puro, sono un doloroso gesto di tregua. L’inquietudine c’è, ma con l’accettazione che quella è una patria.
Per questo leggere i Racconti romani, che si concludono con una specie di strappo («Che città di merda», dice una di noi spezzando il silenzio. «Ma quant’è bella»), lascia un senso di perturbata pacificazione. Dopo aver fatto un giro lungo ventitré anni, Jhumpa Lahiri ha trovato casa nell’inappartenenza, e ora è finalmente libera per sempre. Per farlo ha avuto bisogno di riabitare lo spazio con le parole, di lasciare che la scrittura – esattamente come fa con la memoria – la facesse cittadina di una Roma, che come tutte le città raccontate dagli scrittori (inclusa quella di Moravia cui guarda Lahiri) sono città che esistono soltanto sulla pagina. La Roma dell’autrice è colma di una dolorosissima pace. Sta davanti ai nostri occhi, sotto una coltre sottile che attutisce ma non elimina i rumori. Sta tutta sotto una polvere di parole delicate ma così forti da coprirla per intero.