In un’aula gremita di gente – tanti quelli rimasti fuori – Jeremy Hammond, l’attivista ed hacker ventottenne di Chicago, è stato condannato tre giorni fa a 10 anni di reclusione.
Nel 2012 Hammond aveva consegnato a Wikileaks circa 5 milioni di email provenienti dai server della società di Intelligence privata Stratfor, che aveva bucato. Dagli armadi di queste email sono emersi diversi scheletri, come l’aver spiato alcune delle vittime del disastro di Bhopal per conto della Dow Chemical, o il mandato che la Stratfor aveva ricevuto dal Dipatimento di Pubblica Sicurezza del Texas, per infiltrare il gruppo di Occupy Austin, o lo scambio di email dichiaranti la volontà del governo americano di agire contro Wikileaks e Julian Assange.

I documenti consegnati da Hammond e pubblicati da Wikileaks hanno mostrato la collaborazione della Stratfor con corporation e con governi, non solo quello degli Stati Uniti. «A seguito della consegna dei documenti a Wikileaks da parte di Jeremy, abbiamo ricevuto email da tutto il mondo, anche dall’Italia – mi dice Andy Stepanian dello Sparrow Project, presente in corte e voce pubblica della giornata di mobilitaione e solidarietà per l’attivista informatico– Un giornalista italiano ha ringraziato Jeremy per avergli fatto così sapere del monitoraggio della criminalità organizzata in Italia, dei legami tra Gazprom ed Eni, delle politiche anti-immigrazione. Jeremy è prima di tutto un attivista, quello che ha fatto l’ha fatto per amore della giustizia, delle persone».

Questo concetto è stato ripetuto in aula dallo stesso Hammond, con voce ferma nell’udienza che si è tenuta presso il tribunale di New York, nella lower Manhattan: «Gli atti di disobbedienza civile e azione diretta per cui vengo condannato oggi sono in linea con i principi di comunità e di uguaglianza che hanno guidato tutta la mia vita. Sono entrato in decine di istituzioni governative ed aziende di alto profilo, sapevo benissimo che quello che stavo facendo era illegale e che correvo il rischio di finire in una prigione federale, ma ho sentito l’obbligo di utilizzare le mie capacità per portare alla luce la verità e mostrare le ingiustizie che vengono compiute».
Nessun rimpianto e pentimento ma la sensazione di essere dalla parte giusta della Storia. «Sono rimasto particolarmente colpito dalle azioni eroiche di Chelsea Manning – ha continuato Hammond – che ha rivelato le atrocità commesse dall’esercito americano in Iraq e in Afghanistan. Si è assunta un enorme rischio personale nel far trapelare questa informazione, convinta che il pubblico avesse il diritto di sapere e con la speranza che il suo gesto potesse servire a fermare quelle atrocità».

E il nome di Chelsea Manning, come quello di Snowden e di Aaron Swartz ricorrono anche fuori dalla corte quando, a sentenza chiusa, attivisti e sostenitori di Jeremy Hammond si sono riuniti nella vicina Foley Square. «Senza di loro, senza Hammond, Snowden, Manning, vivremmo nell’inconsapevolezza – ha detto nel suo discorso Christopher Hedges giornalista impegnato sul fronte dei diritti civili e più volte vincitore del premio Pulitzer – loro sono stati e sono e la fonte principale per un giornalismo libero. Ci hanno mostrato che il Presidente è in realtà solo la faccia delle corporation e delle multinazionali che rappresenta. Queste compagnie ci spiano, non solo i governi». Si sono susseguite tante voci a Foley Square a commentare una sentenza che non si limita a dieci anni di detenzione ma comprende anche il divieto di contatti con organizzazioni di disobbedienza civile e l’utilizzo di comunicazioni criptate, o anonimato online, per un periodo di 13 anni. Tra queste voci la giornalista, regista e co-fondatrice dell’organizzazione per la riforma del finanziamento elettorale americano U.S. Day of Rage, Alexa O Brien. Alcune delle email pubblicate da Wikileaks hanno rivelato che alla Stratfor era stato specificamente chiesto di collegare U.S. Day of Rage con eventuali movimenti islamici fondamentalisti sauditi, per screditarlo.

«Uno spettro si aggira per l’occidente – ha detto nel suo discorso – Uno spettro di quello che alcuni chiamano dissenso. Ma quando esaminiamo questo cosiddetto dissenso più da vicino, vediamo che non è né dissenso né è un fantasma, è l’incarnazione degli obiettivi più semplici della vita. È incarnato negli atti di coscienza di individui come Chelsea Manning e Jeremy Hammond, e in quello di milioni di persone di tutto il mondo, da piazza Tahrir a Wall Street, perché hanno pensato per un secondo che potevano partecipare autenticamente al contratto sociale come donne e uomini liberi. È il sistema ad essere lo spettro, perché è costruito per i fantasmi, e non per i vivi e per questo deve seppellire Hammond e Manning vivi. È costruito sulle menzogne».
In piazza anche i dubbi sull’imparzialità del giudice al quale è stato assegnato il caso di Jeremy Hammond, Loretta Preska, moglie di Thomas J. Kavaler, impiegato presso la Cahill Gordon & Reindel Llp, uno studio legale internazionale con base a New York e sedi in America e in Gran Bretagna e cliente della Stratfor.

«Sembra bizzarro che questa giudice possa aver affrontato a cuor leggero il ragazzo che ha rivelato i rapporti tra il datore di lavoro di suo marito e l’agenzia di Intelligence – dice Hellen, trentenne, grafica, sostenitrice di Jeremy Hammond e, come tanti dei presenti, arrivata per essere in aula e mostrargli solidarietà – Seguo questo caso come sto seguendo quello di Snowden come ho seguito Chelsea, ho pianto per la morte di Aaron. Sono le persone che mi hanno aperto gli occhi. Si, hanno infranto una legge, ma in passato tutti gli eroi hanno infranto delle leggi, se non si fossero infrante delle leggi ci sarebbero ancora la schiavitù, il fascismo. Jeremy è stato condannato seguendo il Computer Fraud and Abuse Act, una legge che risale al 1984, prima della diffusione di Internet, ci sono realtà come la Eletronic Frountier Foundation che ne chiedono un aggiornamento, da anni ormai, ma conviene mantenerla così, al sistema è più utile imperfetta. “Bisogna restare forti e continuare a lottare”, come aveva dichiarato Hammond in chiusura in aula, prima di essere condannato.
Poche ore dopo, come reazione alla sentenza, WikiLeaks ha reso pubblico l’intero database delle mail della Stratfor.