Visioni

«Jenufa», simbolismo dostoevskiano nella gabbia delle convenzioni sociali

«Jenufa», simbolismo dostoevskiano nella gabbia delle convenzioni sociali«Jenufa» all’Opera di Roma – foto di Fabrizio Sansoni

Opera Il dramma musicale di Leoš Janácek al Teatro dell'Opera di Roma fino al 9 maggio. Con la regia di Claus Guth e la direzione di Juraj Valcuha

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 5 maggio 2024

Nel primo decennio del Novecento vanno in scena capolavori che hanno cambiato il teatro musicale. La Rusalka di Dvorák nel 1901 a Praga inaugura il secolo e chiude la stagione romantica. Nel 1902 a Parigi Pelléas et Mélisande di Debussy introduce la pratica di intonare un libretto in prosa. Nel 1904, a Milano Madama Butterfly di Puccini è un fiasco, ma oggi è tra le opere più rappresentate nel mondo; a Brno, dove Leoš Janácek era nato, Jeji pastorkyna (la sua figliastra) o Jenufa, com’è conosciuta nel mondo, è un trionfo. A Dresda la Salome di Richard Strauss viene acclamata nel 1905. Nel 1909 ripete il successo, sempre a Dresda, con Elektra.

PROPRIO Jenufa, dopo Kát’a Kabanová e Da una casa di morti, conclude il trittico di drammi musicali del compositore moravo che il Teatro dell’Opera di Roma propone al suo pubblico. Lo spettacolo viene dal Covent Garden di Londra, con la regia di Claus Guth, che fa subito piazza pulita dell’idea, sbagliata, secondo la quale il teatro di Janácek sarebbe realistico. È invece simbolico, il che rientra nella cultura del suo tempo. Tanto Debussy quanto Puccini e Strauss, pur essendo simbolisti mantengono elementi realistici; ma tutto dipende dal contesto in cui sono inseriti. A comprendere il senso profondo del teatro di Janácek la lettura di un romanzo di Dostoevskij aiuta più di un saggio musicologico o teatrale.

Jenufa è messa incinta da Števa, ma il fratello di lui Laca, innamorato anch’egli della ragazza, le sfregia inavvertitamente una guancia e Števa rifiuterà di sposarla, in quanto ormai deturpata. Nasce il bambino, ma Kostelnicka, la matrigna, lo affoga nel fiume ghiacciato, per salvare l’onore della figliastra. Laca, supplicato, si dispone a sposare la ragazza. Viene, però, scoperto l’infanticidio, il popolo accusa Jenufa, e a questo punto la matrigna confessa, Jenufa comprende e perdona. C’è stata una svista d’amore, ma sono state le convenzioni sociali a impedire di amarsi. Claus Guth costruisce una scena unica che è come un carcere. La casa in cui è rinchiusa Jenufa è una gabbia di metallo: un uccello nero, quasi un angelo della morte, osserva ciò che accade all’interno. Intorno una landa ghiacciata. Il prato dell’ultimo atto è rinchiuso dalle stesse pareti che perimetravano il mulino-fabbrica del primo atto e la casa del secondo. In questo spazio claustrofobico, gli attori recitano la propria disperazione, senza sapere come uscirne.

Juraj Valcuha concerta la bellissima partitura con lucido senso della drammaturgia musicale. La sintonia tra orchestra e palcoscenico è totale, anche per lo splendido lavoro di squadra di tutta la compagnia. Cornelia Beskow è una struggente, straziante Jenufa, voce che trafigge cuore e cervello. Karita Mattila impersona il complesso personaggio della Kostelnicka, da grande attrice e raffinata cantante. Laca è Charles Workman, perfetto nel dare corpo e voce a un personaggio mai in accordo con sé stesso. Il fatuo Števa è tratteggiato con disinvoltura da Robert Watson.

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