Il primo disorientamento nasce da un’affermazione di Jeff Wall, cogliendoci impreparati. Lui, fotografo, dice di non fotografare. Osserva in strada una scena, la registra nei minimi dettagli dentro di sé e poi la lascia svanire, senza catturarla con l’obiettivo. Può accadere che un giorno la ripensi, reimmaginandola come fosse un attimo congelato, un’azione improvvisa, un’apparizione disturbante: si riconcretizzerà su «schermi» enormi, cugini dei diorami, retroilluminati come al cinema, noi spersi nella penombra, il soggetto in piena luce rivelatoria.
Il secondo spaesamento affonda ancora di più ogni certezza in chi guarda. Cosa si sta vedendo? Una porzione di realtà rubata alla fluidità del tempo, una messa in scena, un’immagine plausibile ma artificiale, un’allucinazione sprigionata da un incubo diurno?

A Sudden Gust of Wind (after Hokusai), 1993

È CON QUESTA ATTITUDINE allo stupore e alla vertigine della «durata» che si può affrontare la mostra personale dedicata al canadese Jeff Wall (Vancouver, 1946) dalla Fondazione Beyeler di Basilea (curata da Martin Schwander, in collaborazione con Charlotte Sarrazin, visitabile fino al 21 aprile). Le undici rooms allestite con la complicità dell’autore stesso – cinquanta opere che coprono l’arco di cinquant’anni, non necessariamente seguendo un rigido ordine cronologico, ma preferendo il germogliare delle affinità elettive – si rincorrono nelle ariose sale dell’edificio realizzato da Renzo Piano, rispondendo ai giochi di trasparenza e ai riflessi acquatici del giardino esterno con le ninfee.
È così che un’immagine (Wall preferisce non parlare di fotografie ma di picture e di lavori cinematografici) come Flooded Grave trova in quell’ambientazione sospesa e translucida la sua cifra surreale migliore, rimandando a una visionarietà che si percepisce solo a un secondo e più attento sguardo. Un acquazzone, infatti, ha riempito la buca: quella fossa è appena stata scavata in un cimitero ma, sotto, al posto della fanghiglia, inaspettatamente pullula la vita marina, compreso un polpo di cui si intuiscono i tentacoli.
«Solo la fotografia rileva l’inconscio ottico, così come solo la psicoanalisi rileva l’inconscio pulsionale – scriveva Walter Benjamin –. Caratteristiche strutturali e tessuti cellulari (di cui sogliono occuparsi la tecnica e la medicina) sono in origine affini alla fotografia più di un paesaggio suggestivo o un ritratto pieno di sentimento. Ma, al contempo, in tale materiale la fotografia svela aspetti fisiognomici e mondi visivi a livello microscopico, intuibili ma nascosti abbastanza da aver trovato rifugio nei sogni a occhi aperti…». Wall risponde all’urgenza del reale trasportando ogni elemento in un altrove da costruire e disfare a proprio piacimento. In linguaggio tecnico, si chiama staged photography e si avvale di una regia minuziosa nella sua messa in atto. In fondo, la concettualità sfoggiata dall’artista è un set di quell’inconscio ottico.
After Invisible Man by Ralph Ellison, Prologue, per esempio, ci conduce nello scantinato dove vive il protagonista del libro da cui il fotografo trae ispirazione: l’uomo è circondato da migliaia di fonti di luce, ossessionato dal suo desiderio di esistere, di essere visto.

Boys falls from tree», 2010

«LA LETTERATURA – sostiene Wall – ha aperto la strada alle altre arti dando la possibilità di immaginare, fantasticando sul passato e sul futuro o sulla combinazione di entrambi». Anche i suoi sono sogni a occhi aperti, paesaggi pastorali o metropolitani che reinventano scorci e situazioni, mentre l’umanità che li attraversa è residuale, spesso assente o, quando c’è, agisce in modo non convenzionale: in Insomnia, 1994, un uomo staziona sotto al tavolo della sua cucina dai colori pastello sporchi, sveglio e con i sensi all’erta; in un’altra immagine, un ragazzino cade dall’albero ma non precipita, resta a mezz’aria, in un incidente atemporale, come in una storia fatata.
I riferimenti di Jeff Wall, sia quando offre oniriche light box che hanno come punto di forza la loro verosimiglianza con la quotidianità sia quando «monta» frames digitali realizzando un’unità d’insieme (funzionale e finzionale), appartengono a mondi paralleli, in un gioco di scatole cinesi che ripropongono icone della pittura o pagine di romanzi.

FRA LE SUE OPERE più celebri, c’è A Sudden Gust of Wind (after Hokusai) del 1993: il titolo rivela già tutto. Wall ha riadattato una xilografia di Katsushika Hokusai tratta dalla serie 36 vedute del monte Fuji. Ma in quegli uomini, forse impiegati, che sul bordo dell’acqua tentano di resistere alle folate di vento mentre i loro documenti volteggiano liberi, sarebbe difficile ritrovare elementi della stampa giapponese. Eppure l’autore, come i maestri della fotografia di strada prima di lui – da Cartier Bresson a Robert Frank – coglie qui l’attimo decisivo con «una fedeltà inscalfibile». Hokusai torna quindi come un imprevisto della natura.
Ogni immagine, affermava Susan Sontag, può «appoggiarsi» contemporaneamente sul prestigio dell’arte e sulla magia del reale. Tutte «sono nubi di fantasia e pillole di informazione». Sia Dead Troops Talk, requisitoria allucinata contro la guerra e l’oblio della crudeltà, che Il pensatore di Wall raccontano bene questa tensione dialettica tra visibile e invisibile. L’uomo sulla collina, assorto, ripreso da un’incisione misteriosa di Dürer e riconsegnato alla contemporaneità, è una sentinella della disillusione, l’immaginario monumento di una umanità sconfitta.