Quando era piccolo, Jeff Koons rimaneva incantato dalle preparazioni delle feste di compleanno di sua madre. Palloncini, cappellini colorati e pupazzi gonfiabili decoravano la casa per rendere più allegra l’atmosfera. Una casa che già era meticolosamente «immaginata» nei suoi spazi dato che il padre – arredatore di interni per professione – non lasciava nulla al caso, sempre alla ricerca dell’oggetto perfetto. È qualcosa che non ha dimenticato nel tempo Koons e quella lezione di felicità (principio materno) o maniacalità nel controllo dell’estetica (principio paterno) ha modellato molte delle sue idee artistiche, ricreando in forma esageratamente gigantesca un mondo perduto, ma preziosamente custodito nei suoi ricordi. Così come la fattoria dei nonni dove aveva passato l’infanzia e che è andato a ricercare fino a ricomprarla per lasciarci scorrazzare i suoi numerosi figli, «mi interessava non tanto ritrovare le mie radici ma offrire un posto loro diverso da New York», immerso nella natura e nei ritmi stagionali dettati dalla vita agricola.

Jeff Koons, 1978

Dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle, il film di Pappi Corsicato Jeff Koons. Un ritratto privato (prodotto da Nexo Digita) approderà al cinema nei giorni il 23, 24, 25 ottobre. È un artista quasi sconosciuto quello che appare sullo schermo, non la star multimiliardaria o il criticatissimo uomo al centro di battaglie legali (con Ilona Staller, sua ex moglie per il figlio Ludwig, cui viene data parola nel film e che scopriamo anche assere stato, da bambino, l’ispiratore di una titanica scultura con la plastilina colorata).
Nel film di Corsicato, costruito con interviste alla sorella, la moglie, i figli – compresa la prima, Shannon, avuta giovanissimo da una compagna di università, poi data da lei in adozione e cercata negli anni fino al 1995 quando avvenne l’incontro – critici,  dealer che hanno influenzato il mercato come Deitch, artisti a lui vicini come Schnabel scorrono nelle immagini alternandosi ai super8 di famiglia, omaggio affettivo alle proprie origini, classe media, genitori uniti, quotidianità semplice. Naturalmente, tutta la vita di Koons è un’«opera», quindi pure la banalità dell’everyday tutto americano, in Pennsylvania. Che infatti torna in tanti suoi lavori, con quegli oggetti monumentali e luccicanti, cose originariamente di poco conto che sbarcano un universo parallelo (il suo Rabbit nel 2019 è stato battuto all’asta per 91 milioni di dollari, rendendolo l’artista vivente più quotato al mondo).

Pur se la sua carriera è costellata di cadute e ascese, Jeff cominciò presto: ragazzino, disegnava sempre, tenendo a cuore – dice oggi – «persone e oggetti, come mi aveva insegnato mio padre. L’arte mi ha aiutato a definirmi». Una volta cresciuto va a Baltimora a studiare, poi a Chicago; infine, approda nel luogo del destino, quella New York che all’epoca era il centro propulsore delle migliori energie creative. Nel suo studio sulla 17/a strada colpisce l’immaginazione della gallerista Mary Boone con gli Inflatables (fiori gonfiabili in teche come fossero sculture classiche). Per mantenersi e finanziare le sue opere costose lavora come broker – d’altronde anche Jeffrey Deitch, il mercante, gallerista e curatore che ebbe un gran ruolo nell’influenzare la scena artistica di quegli anni, era impiegato in una banca.
Koons si presenta sulla scena newyorkese con le sue aspirapolveri Hoover in vetrina per poi popolare i musei con pupazzi kitsch e giocosi, che rivoluzionano il concetto di scultura, scavalcando anche i confini, già esplosi, del Pop. Il film lo segue in varie mostre fino all’eclatante Shine presso Palazzo Strozzi di Firenze. Sembra tutto patinato, eppure, confessa Koons, nonostante le sgargianti tonalità di quella «Disneyland», sottotraccia scorre un dialogo filosofico che interroga la vita e la morte. «Le mie opere sono la superficie, ma preparano a questo genere di riflessioni».