È Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975) il miglior film di tutti i tempi secondo la nuova classifica stilata dalla rivista inglese di cinema «Sight and Sound» – l’elenco completo sul sito del Bfi: bfi.org.uk. Nel sondaggio che viene lanciato ogni dieci anni dal 1952 – quando al primo posto si era affermato Ladri di biciclette (1948) – con l’idea offrire un canone storico e osservare l’evoluzione dell’opinione critica e la resistenza alla prova del tempo delle opere cinematografiche, il film di Chantral Akerman è risultato il più votato dai critici – «scalzando» così Citizen Kane – mentre nella classifica dei registi in testa c’è 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick. L’annuncio ha scatenato «bufere» social – almeno nelle bolle di cinefili e addetti ai lavori – tra chi è entusiasta del risultato, chi si lamenta, chi segnala «gravi» mancanze, chi sfotte , chi accusa di ideologia – «il film di una donna femminista l’aria dei tempi … » attaccandolo pur senza averlo mai visto.

SE UNA classifica non esaudisce i migliori film (o le migliori canzoni o libri ecc) e forse è persino un esercizio narcisista, la risposta più calzante su questo arriva proprio da Akerman quando interpellata per votare nel 2012 rispose: «Non mi piace l’idea, è una cosa scolastica. Proverò a pensarci ma non capisco perché dovete classificare sempre tutto. Potreste invece mettere le mie frasi… È faticoso e non davvero necessario fare questo genere di cose».
A partire da qui pone qualche domanda il fatto che tra i primi dieci titoli dei critici – e programmatori, archivisti, curatori, accademici per un totale di 1639 persone contattate contro le 145 nel 2002, e le 846 nel 2012 – non vi siano grandi autori del Novecento come Straub e Huillet, Robert Kramer, De Oliveira e Monteiro e ancora Wakamatsu o Carpenter o le nuove onde cinesi compreso Wang Bing, o Robert Aldrich – mentre nei primi dieci appare Beau Travail di Claire Denis e al posto 95 Get Out di Jordan Peele. Questione di gusti? O è perché non si trovano in rete o su Mubi o simili? O ancora perché lo sguardo in prospettiva è stato accantonato? Quel che più in generale al di là dei «film del cuore» sembra però mancare è un cinema (immaginario) meno «classificabile», più formalmente politico e in strati profondi a parte qualche lampo qua e là.

PER QUESTO l’affermazione di Chantal Akerman è ancora più preziosa: non si tratta del «film di una donna» (fastidiosa etichetta) ma dell’opera di un’autrice che amava rischiare, e che come scriveva su queste pagine Nicole Brenez, il giorno della sua morte, il 4 ottobre 2015 «viveva e applicava nel quotidiano l’insegnamento di Emmanuel Lévinas: pensare a partire dall’altro».
Di cosa parla Jeanne Dielman di cui la meravigliosa regista belga propose anche una versione installata sperimentandone la resistenza a altri spazi di visione nella Biennale d’Arte di Venezia curata da Harold Szeemann nel 1999? Dicendo sul film: «Le cose si complicano. Ero riuscita a fare quello che volevo, e adesso: che fare dopo?» – fece News From Home (1976). Di una donna, la Jeanne del titolo, figura femminile magistrale grazie alla complicità della protagonista, Delphine Seyrig, che ha totalmente rinnovato il rapporto tra descrizione e narrazione, nell’ordinarietà di quell’ambiente famigliare: la vita col figlio, la prostituzione quotidiana, fare i dolci, bere una tazza di latte. Manifesto femminista, sì, e prima ancora un film che reinventa gli spazi, le geometrie, il tempo dentro le immagini, i rapporti, i fantasmi. Quello che Akerman ha sempre fatto nei sui film che sono amore, ostinazione, resistenza, ironia senza dogmi – pensiamo al suo altro struggente ritratto di donna in Portrait d’une jeune fille de la fin des années 60 à Bruxelle con la lunga giornata della giovane protagonista che tira fuori dallo zaino la minigonna proibita per lanciarsi nella vita.
Un cinema di desiderio, di presa di parola il suo sempre con pudore fino all’ultimo No Home Movie (2015) presentato in concorso a Locarno – e fischiato – in cui metteva a nudo quell’intimità che aveva attraversato in filigrana le sue storie, la figura della madre che era da poco morta, e quel suo non poter non essere più figlia. Non si può allora che essere felici del riconoscimento a questa artista segreta e insieme capace di trasformare col suo sguardo nomade il cinema moderno, ragazza ribelle con passione.