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Jean Puy, le lune del piccolo maestro

Jean Puy, le lune del piccolo maestroJean Puy, "Autoportrait à la pipe en terre", 1920, collezione privata

Riscoperte nell'arte: Jean Puy Unica scena-madre, il Salon del 1905 che lanciò i Fauves: amico di Matisse, apprezzato da Apollinaire, rifluì subito in un nobile e nevrotico anacronismo, in cui recupera la lezione dei Nabis

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 19 aprile 2020

Non esiste, a nostra conoscenza, una trattazione specifica e organica della categoria «piccolo maestro»: sarebbe interessante, soprattutto come storia del gusto. Francis Haskell, che nei Mecenati e pittori tocca il problema a proposito dei Bamboccianti, ne avrebbe tirato fuori un libro fantastico, una miniera di informazioni e di sogni.
L’idea si fece strada all’interno delle controversie seicentesche sullo statuto dei generi artistici, dai superiori (pittura di storia) agli inferiori e agli infimi (natura morta, scena ‘di strada’): come a garantire nascostamente una patente di qualità pittorica a opere ‘moralmente’ inferiori. Il «piccolo maestro», poi, trovò l’habitat culturale più proprio nel Settecento francese. Già all’alba del secolo, sotto il segno di una petite manière alternativa al grand goût, si muove Watteau. Petit maître per eccellenza, come lo vorranno i fratelli Gouncourt, è il disegnatore scapricciato, di una finezza inarrivabile, Gabriel de Saint-Aubin. E tale fu considerato dall’opinione accademica, che non era quella di Diderot, l’accademico Chardin. Quando la pittura di storia, che aveva perduto diversi punti nella stagione rococò, riprende in mano imperiosamente lo scettro dei valori con David, operano all’ombra di questi, o sulla sua scia, una serie di artisti minori e ricercati, i Sablet, Gauffier, Boilly, che traducono ‘in piccolo’, e in intimo, il verbo neoclassico.
Nell’Ottocento francese, con l’emergere definitivo della ‘pittura’, vengono messe in discussione le vecchie gerarchie, si allenta il discrimine dei generi sotto gli occhi esterrefatti dei pompiers, così, piano piano, cambia la semantica del «piccolo maestro», adesso più difficile a definirsi. A maggior ragione nel Novecento dell’impegno e delle avanguardie, dove la simpatica e struggente figura subisce un deciso spaesamento. Qui proviamo a descrivere questo esito nel corpo vivo di un caso concreto: Jean Puy.
All’accademia libera con Carrière
L’unica scena-madre della carriera di Jean Puy è la cage aux Fauves del Salon d’Automne 1905: per la verità non espose nella celebre sala sette con Matisse e gli altri, ma nella tre. Matisse fu per Puy un fratello maggiore, «mon père», come prenderà a chiamarlo. Si erano conosciuti all’accademia libera in rue de Rennes, dove Eugène Carrière sorvegliava, senza opporsi, il nascere della nuova visione sintetico-cromatica, così discorde dalle sue nebbiose allucinazioni color tabacco. Un giorno del settembre 1900, Puy, di ritorno dalla Bretagna, raccontava, durante una pausa, dell’isola di Belle-Île – che diventerà luogo fatale della sua vita –, e un ragazzo accanto a lui, che dipingeva «un torso d’uomo con del blu cobalto», si inserì nella conversazione ricordando i suoi soggiorni lì di alcuni anni prima: a Belle-Île Matisse aveva realizzato, a gara con i precedenti esempi di Monet, delle notevoli marine impressioniste, che lo emanciparono dalla tavolozza bruna, «olandese», dei suoi inizî. L’amicizia di Matisse, sicuro, cattedratico, sarà lievito per l’arte di Puy, che soltanto in quel momento della giovinezza – era nato nel 1876, nel 1905 dei Fauves aveva quasi trent’anni, morirà nel 1960 – trovò un vero accordo con lo spirito del tempo.
Il «piccolo maestro» opera nell’ombra, fuori dalle direttrici che delineano l’arte del futuro. Magari replica fino alla fine dei suoi giorni la maniera trovata, ma generalmente non cede in qualità. Puy, d’altra parte, non è un cuor contento. Rispetto agli artisti secondi, e diversamente significanti, a cui lo lega la militanza fauve – Marquet, Manguin, Camoin, Valtat – è il più insoddisfatto, il più inquieto. Nelle sue lettere si lamenta di continuo, soprattutto con il fratello minore Michel, che fu per lui una specie di Theo: poeta di ispirazione neo-simbolista, fine critico d’arte, firmò la prima monografia di Jean, nel 1920, per le edizioni della Nouvelle Revue Française.
Come gran parte degli sperimentali della sua generazione, Jean Puy, agli esordi, non è insensibile alla lezione divisionista, interpretata liberamente e coniugata a un sentire lirico. Al contrario non è stregato da Cézanne, che «je respecte mais qui ne me donne pas le vrai bonheur». In ogni caso, dalla risolutezza con cui sbozza certi nudi nel croma all’inizio del Novecento, si può pensare che avesse di fronte la strada del «grande maestro». A questo livello della storia, Puy è degno di Matisse. In alcune note autobiografiche del 1939 egli ricorda di quando, nell’atelier del pittore Jean Biette, Matisse avesse trasfigurato in «formes orangées», sopra «un gros bleu très lourd», «una specie di antropoide d’Australia», l’italiano detto Bevilacqua, che aveva posato per Rodin. Derain operava allo stesso modo. Puy ne fu sorpreso, ma della seduta, che risale al 1901, rimane una sua testimonianza pittorica, ed è altrettanto risentita e primitivistica: anche lui dunque, come scrive di Matisse, «non esitava a introdurre mezzi estremi e completamente artificiali».
Nel distanziarsi quasi subito da quelle «ébauches mirobolantes», nel ritrarsi dalle barricate, Puy, anche recuperando certo intimismo della sua prima formazione, scopre se stesso in via definitiva: il «piccolo maestro» non evolve! Il nostro è un pittore troppo legato alle ‘illusioni’ della realtà, troppo affezionato alle paste del suo mestiere, per cedere alle lusinghe della cerebralità che sempre accompagna le rotture dell’avanguardia. È intelligente per capire che la sua sensibilità lo porta via via su un terreno anacronistico: dunque soffre, scalcia, si arrabbia con se stesso.
Ma, tra le due guerre, la sua inattualità non sarà frontale come il ‘musealismo’ di Derain o anche il neo-cézannismo della Bande Noir: si nutre di travaglio. Puy, ha scritto George Besson, il critico a lui più fedele, «vorrebbe far credere che il problema della pittura… è rimesso in discussione ogni volta che egli ricomincia a dipingere»: vorrebbe… Si appoggia a certe antiche pozioni nabis, non tanto in senso stilizzante, quanto nel gusto dell’atmosfera, dell’intimità che si rapprende in una speciale granulosità, fra i rosa fanés e gli arancio. Quando viene meno il riferimento a Matisse, a parte certe coincidenze con il Vuillard ultimo, «neorealista», trova la sponda in Bonnard, seguito con attenzione nei suoi sviluppi, ma non al punto da intenderne appieno la modernità altra, il disfacimento molecolare della superficie pittorica. Scriverà nel 1947, dopo aver visto la mostra di Bonnard ‘in morte’: «È un inventore lirico e appassionato, che cerca di liberarci dalla piattezza della realtà, di un certa realtà, quantunque abbia, talvolta fantasticamente, delle singolari debolezze…».
Lo specialista del controluce
Puy fa del suo atelier un teatro privato, una stanza dei ricordi, che traspone in pittura: quel vaso decorato all’antica, quel drappo con ornamenti floreali, quel torso femminile, quell’Afrodite accroupie… la palette e il cavalletto, la modella nuda, le bambole bretoni a cui dedica a più riprese curiosissimi ‘ritratti’. È uno specialista del controluce, ne studia con dedizione gli effetti con cui modifica la temperatura dell’ambiente. Quando il suo occhio si volge all’esterno, non predilige il plein air né l’effetto di sintesi, ma il comporre sobrio e bilanciato, in un dialogo protratto con i sodali di un tempo, Marquet, Manguin, Camoin, a cui lo lega una salda amicizia. In certi casi, come nella Port de Roanne, 1937, sembra allestire un set: si diverte a disporre gli aspetti-tipo della serenità di provincia.
Roanne! Il «piccolo maestro», in genere, non nasce al centro, ha origini periferiche, e resta legato al suo paese natale. Ma non lo romantizza come Redon le lande di Peyrelebade. Roanne, del resto, è cittadina quasi anonima, bagnata dalla Loira, a nord-ovest di quella Lione dove Puy aveva fatto il suo apprendistato, con un pittore di storia, ottimo didatta, che gli resterà nel cuore: Tony Tollet. Installatosi a Parigi nel 1898 – gli atelier: rue Daguerre, rue Lepic, boulevard de Clichy –, non si adatterà mai al chiasso della metropoli; torna spesso a Roanne, dove dal 1940 si ritira, in una solida casa con giardino messagli a disposizione dalla sorella, Madelaine Vindrier, in cui può coltivare con calma la sua nevrastenia, riagganciandosi alle immagini dell’austera infanzia borghese e fantasticando con il sempre-amato Baudelaire, che non lo tradisce. Un collezionista amico, Gabriel Chevallier, fissa Puy, in questi anni, nella sua «semplicità» (la stessa, dice, di Bonnard e di Marquet), nell’aspetto «da vecchia un po’ sarcastica, ora candida ora maligna». Testimonia anche del suo disinteresse per il denaro.
Alcune marine bretoni degli anni venti – solo acqua procellosa, qualche scoglio di quinta e orizzonte annuvolato, tutto in una gamma grigio-blu lavorata con sprezzatura – dicono nel modo più diretto della passione di una vita: «Il mio destino doveva essere di navigare con Magellano nel Pacifico»; sotto una foto di circa il ’29, in cui, secco come un grissino, è alla barra del suo piccolo veliero «Le Général Cambronne», firma con Baudelaire: «Ô Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!…». Puy i sogni li riserva al mare, ma non a quello solare del Midi, che fu la ‘chiamata’ di gran parte dei suoi amici pittori: è oceanofilo.
All’inizio la fortuna commerciale di Jean Puy era stata buona: come altri Fauves minori, lo si preferiva a Matisse. La sua pittura era sostenuta dalle firme eccellenti di Vauxcelles e Apollinaire, il quale ammirava il suo «abbandono», la sua «armoniosa nonchalance», «una spossatezza che non è punto spossante». Dopo i passaggi dalle gallerie di Berthe Weill e di Eugène Druet, anche Puy si legò, 1905, a Ambroise Vollard, che fece circolare i suoi dipinti prima della Grande Guerra, ma, dopo, li recluse nei caveaux. Il rapporto, che durò fino al ’25, fu complicato, però non addirittura, come ha scritto Crespelle, «una grande disgrazia»: sarà stimolante ripercorrerne la storia, che ha lati lunatici come sempre se si tratta del creolo di rue Laffitte, nella mostra Puy/Vollard, un fauve et son marchand, dal 13 giugno al 22 novembre al Musée de Pont-Aven (poi, dall’11 dicembre, al Musée Délechette di Roanne). Vollard, più che il Puy pittore, amava il disegnatore, da lui chiamato a illustrare, con tratto scattante e stralunato, la sua spassosa ripresa di Jarry Le Père Ubu à la guerre.
Il «piccolo maestro» è misconosciuto: Puy due volte, perché all’anacronismo si è aggiunta, storicamente, l’inaccessibilità dell’opera. Gran parte della produzione giovanile è rimasta sotto sequestro degli eredi Vollard; quella dell’ultima stagione sepolta nella penombra dei salotti borghesi di provincia. Con il risultato, almeno fino alla mostra del 1988 a Roanne (curatore Eric Moinet), di un’immagine assai ristretta del suo operare. Ma soltanto a partire dal catalogo ragionato dei dipinti (due volumi, 2000-’01, edizione Les Amis de Jean Puy), in cui si è depositato l’amorevole lavoro quarantennale degli eredi, dalla sorella ai nipoti Suzanne Limouzi e Louis Fressonnett-Puy, l’artista è riemerso dall’oblio per accedere al… limbo, cui sono destinate, ai giorni nostri, le espressioni discrete e non ‘griffate’ dell’arte moderna.
Dopo un lunghissimo allentamento dei rapporti, Jean Puy si ritrovò con Matisse, quando questi, all’inizio del 1941, gravemente malato, fu operato a Lione: andava spesso a trovarlo. Nel marzo del 1948, di ritorno a Roanne, trova una scatola, la apre «golosamente»: Jazz! découpages coloriés! Grazie per il regalo… ma la lettera a Matisse, dopo un primo moto di ammirazione, esprime dubbi: «j’ai besoin des images un peu concrètes…». Qualche mese di silenzio e Puy riprende la penna, preoccupato che l’amico si sia infastidito: vengo fuori, scrive, da un’«accigliata meditazione», «scontento di me stesso e dei miei vani sforzi per fare dei buoni quadri». Ma torna alla carica, da piccolo maestro dispettoso, contro certe pagine di Jazz, «di una gamma ostile e vuota». Ai suoi occhi è tutto «troppo compatto» e «troppo puro. Et voilà…».

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