Col titolo «Quando di nuovo la terra risplenderà per voi» Fuori orario dedica la notte del 9 dicembre (Raitre, dalle 1.40) a Jean-Marie Straub, morto il 20 novembre scorso a Rolle, in Svizzera, la stessa cittadina di Godard, dove viveva da diverso tempo, da quando più o meno era morta Danièle Huillet (nel 2006) artefice insieme a lui del loro cinema che è stato la loro vita. Tra la Francia, la Germania, l’Italia, belli, eleganti, lui col sigaro (non Toscanello), lei coi capelli lunghi e gli occhi luminosi, avevano riconfigurato una parte della memoria intellettuale (e storica, politica) dell’Europa a partire spesso da riferimenti letterari anche se come diceva Straub: «Adattare un romanzo non ci interessa». Una dichiarazione che spiega (quasi) tutto dei loro rapporti coi testi (letterari) mai adattamenti, appunto, ma uno strumento per interrogare i meccanismi di rappresentazione cercando nelle pieghe meno visibili una diversa consapevolezza del mondo, la geografia della Storia.
La notte presenta due film, Dalla nube alla resistenza (1979) e Troppo presto troppo tardi (1981), insieme a Proposta in quattro parti (1985), un montaggio di materiali realizzato per La Magnifica Ossessione, il programma che ideò Enrico Ghezzi su Raitre quello stesso anno, che si compone in quattro movimenti: A Corner in Wheat di David Wark Griffith (1909); Moses und Aron, fine del primo atto; Fortini/Cani, sequenza da I consigli comunali delle Apuane a C’è stato un modo. Dalla nube alla resistenza, ultimo dialogo della prima parte: il padre e il figlio.

Su quest’ultimo viene riportata una frase di Straub di qualche anno prima (1977): «C’è un film di Griffith di dieci minuti dal titolo L’accaparramento del grano. Anche a livello del montaggio in senso brechtiano e ejzensteiniano è un film che riesce a far vedere in poche inquadrature, con un’economia totale, come funziona lo sfruttamento e la speculazione a tutti i livelli della catena, fino al prezzo del pane; si comincia e si finisce col contadino che semina il grano e in mezzo c’è tutto quello che succede con l’intervento della speculazione». Era uno spettatore esigente Straub, grandi passioni per Ford, Renoir, Bresson, Ozu, una cinefilia che nelle inquadrature cercava un senso forte, una scelta. Bastava scorrere gli «spartiti» che preparavano, lui e Danièle per le riprese sui quali la luce e il respiro delle parole avevano un movimento sempre preciso, un peso specifico senza casualità. Come il rumore del vento o delle foglie o i sussulti della realtà in cui vivevano le loro storie.
Era il loro lo sguardo di un Novecento non riconciliato ma con dolcezza, criticamente analitico, che respingeva il rancore di quel populismo confuso e rivendicatorio (che piace tanto oggi). Non avrebbero se no potuto cogliere il movimento della storia e del tempo che attraversa ogni loro film, e parlare di lotta di classe e di rivoluzioni, di miti e di umanità reinventando un paesaggio che è anche metodo di lavoro.
E di rivoluzione parla Troppo presto troppo tardi, tra Place de la Bastille a Parigi e l’Egitto, tra una lettera di Engels e la campagna bretone che racconta la condizione di sfruttamento dei contadini, tra gli scritti di Mohammed Houssein sulla lotta di classe da Napoleone a Sadat e i movimenti di liberazione massacrati dal colonialismo e dal post degli accordi tra le dirigenze politiche e i colonizzatori.

È INVECE Cesare Pavese dei Dialoghi con Leucò e La luna e i falò a ispirare Dalla nube alla resistenza – in cui appaiono oltre a Huillet, Olimpia Carlisi, la dea irreale su cui si apre il film, e Gianni Toti, sperimentatore di una ricerca italiana rimasta sottotraccia. Dal mito (la nube), l’universo degli dei che influenzano le esistenze degli umani e discutono sulle responsabilità che hanno nei rapporti col potere, si passa alla storia (la resistenza) con l’incontro tra il «Bastardo» – un uomo tornato dall’America dopo la liberazione, e Nuto il falegname musicista. E i racconti dei partigiani e le voci delle persone nelle Langhe che dicono anche le contraddizioni della guerra partigiana. La parola, con i suoi accenti sublimi, viene quasi «lanciata» nell’aria dagli interpreti , ancorati solidamente nei paesaggi di luce, che ritroveremo nei film seguenti, da Hölderlin (La morte di Empedocle, 1987; Peccato nero, 1990) a Vittorini (Operai, contadini, 2001; Il ritorno del figliol prodigo – Umiliati, 2003).