Una scrittura impastata nei corpi, che ne parla il linguaggio a prima vista austero, meccanico, in grado di sostituire muscoli e ossa a sentimenti e emozioni, ma che si rivela pian piano gravida di attese e scoperte, timorosa quasi nell’immaginare cosa si celi oltre lo sguardo, la percezione della propria sensibilità tattile.

L’INQUIETUDINE SORDA che accompagna le pagine de Il figlio dell’uomo (Neri Pozza, pp. 218, euro 18, traduzione di Riccardo Fedriga) sembra fare il paio con la sinfonia devastante costruita intorno ad un allevamento intensivo di maiali de Il regno animale (Neri Pozza, 2017), non il suo primo romanzo, ma quello che ha rivelato a livello internazionale le doti del 42enne scrittore di Tolosa Jean-Baptiste Del Amo, tra le voci più significative della narrativa francese delle ultime stagioni. In quel caso «l’eredità» famigliare era impastata con il sangue e la merda della porcilaia, quasi un destino segnato dalla crudeltà e dalla morte per i protagonisti – umani – della storia.

A ben guardare, quel libro descriveva però il dramma di un «delitto della camera chiusa» nella sua doppia versione dello spazio angusto e sordido che dava da vivere ai personaggi e di quello altrettanto ben poco arieggiato e aperto sul mondo del nucleo stesso della famiglia al centro della vicenda. Ora, che ne Il figlio dell’uomo quel senso di crescente claustrofobia si sviluppa plein air, intorno a un maso dal tetto di ardesia delle montagne dell’Ariège, dove la mente e lo sguardo possono vagare libere, intrecciarsi al ritmo selvaggio ma incontaminato della natura, si comprende fino in fondo come ciò che sta davvero a cuore a Del Amo si situa nelle forme che assume la trasmissione, o se si preferisce l’eredità che i figli ricevono dai padri. È nello spazio angusto di questo passaggio di testimone che si cela, sembra dirci lo scrittore, tutta la sfida ma anche tutti i pericoli cui ci espone la vita.

E CHE NON SI TRATTI di destini particolari, ma di traiettorie in qualche modo tracciate in modo imperscrutabile un po’ per tutti noi, lo rivela il fatto che i personaggi del romanzo non hanno alcun nome, sono semplicemente il padre, il bambino e la madre, tutt’al più anche il padre del padre. L’eredità da trasmettere è fatta di rabbia, violenza, forse follia. Un uomo riemerge nella vita di un ragazzino di nove anni che vive solo con la madre da così tanto tempo che fatica a riconoscere in lui il volto del padre. È stato lontano, forse in prigione, forse come soldato di ventura? Quel poco che sapremo di lui racconta di un balordo di provincia, belloccio e sicuro di sé, tutto bravate e auto veloci, la caccia e le armi, uno di quei personaggi di cui il cinema francese ci ha abituato a dubitare fin dalla prima inquadratura. Per il «nuovo inizio» che ha in mente convince la donna e il bambino a seguirlo a «le Rocce», nella baita sui Pirenei dove è a sua volta cresciuto con un padre violento e folle.

La vita è spartana, tutto è nuovo bizzarro, per il ragazzino le montagne d’intorno e l’inedita vita famigliare a tre sono al tempo stesso fonte di inquietudine e meraviglia. Il padre-ritrovato gli insegna a sparare con una vecchia pistola con cui a sua volta lo aveva fatto il suo di padre, certe cose, gli spiega si passano di padre in figlio. La parte rude e selvaggia di quella nuova quotidianità, tornerà a scuola, gli dicono, all’inizio della nuova stagione, lo affascina, ma al tempo stesso lo turba. Man mano che conosce l’uomo che è così repentinamente entrato nella sua esistenza sembra intravederne anche il lato oscuro, la furia composta che celano i suoi gesti. «Vorrei solo che riuscissi a liberarti di quella rabbia, di quell’ombra che incombe costantemente su di te», dirà di lui la donna in un momento che annuncia gli esiti della storia.

PERCHÉ COMPLICI i luoghi infestati dal fantasma di un altro padre violento e dalla crescente gelosia su quanto la donna ha vissuto mentre lui era lontano, l’uomo pare sprofondare in una nebbia fatta di paranoia e sete di vendetta, fino ad un drammatico epilogo. Del Amo aveva però avvertito i lettori già nelle prime pagine del libro, immerse nella vita selvaggia degli uomini dell’età della pietra, rivelando che è la violenza la vera eredità che da sempre passa «di padre in figlio».