Il termine greco dialogo, scomposto nei due tratti semantici che lo compongono, dia e logos, significa «un discorso, un ragionamento che passa da una persona (o un gruppo di persone) a un’altra».
Il significato s’è mantenuto nel latino, e oggi in italiano, anche se la cattiva temperie mediatica dei nostri tempi per dialogo spesso intende un funesto gioco di sopraffazione a chi grida più forte. Le musiche afroamericane, da quando hanno cominciato a manifestare tratti culturali ed estetici specifici e spesso unici sono, nella stragrande maggioranza, musiche dialogiche.

COMUNICAZIONE
Un fatto assai interessante, perché riguarda tutti i problemi della comunicazione, e con particolare attinenza specifica alla comunicazione non verbale. Charles Mingus nei suoi concerti infuocati e spesso caricati della stessa pressante urgenza «trance» delle cerimonie gospel usava rivolgersi ai suoi musicisti, ad esempio a Eric Dolphy con un tranciante «talk about that», adesso parlane tu, anche se il flusso di suoni che sarebbero scaturiti da lì a una frazione di secondo dopo ovviamente non avevano alcuna rilevanza di comunicazione verbale. Ma di dialogo sì. Nel primo jazz, poi, la voluta forzatura e piegatura espressionistica del suono a fini mimetici, rispetto alla voce umana, sugli ottoni convocava al grande banchetto delle musiche altre «voci» individuali iper caratterizzate. Si pensi alla tromba di Bubber Miley con Duke Ellington, ad esempio, e a tutta la fioritura di istanze «mimetiche» nella musica nel cosiddetto periodo jungle del Duca del jazz. Veicoli perfetti per il «dialogo». Ed è in fin dei conti «dialogo» anche quanto avviene in un blues di Robert Johnson: la voce lancia le sue battute, la chitarra risponde, in un gioco dialettico di interazione continuo e alternato assestatosi cent’anni fa in una formula quasi canonica, quanto appunto chiamiamo «blues», e che in origine aveva, invece, un andamento formalmente assai più libero e non incardinato su un numero di battute fisso.

PIÙ AVANZATA
Qui però tratteremo della forma più avanzata e caratteristica di suono dialogico del jazz. Quella in cui entrano in gioco, appunto, due persone che dialogano con gli strumenti. Un percorso estetico che ha avuto un suo inizio, e che, probabilmente non avrà fine fino a quando esisteranno il jazz e le note afroamericane. L’alone del mito avvolge, giustamente, le incisioni di Louis Armstrong per la piccola ma agguerrita etichetta Okeh, diretta da un chicagoano e da un newyorchese (provenienti dunque dai due «poli» geografici essenziali del periodo, per il jazz). Per molte e valide ragioni che appartengono alla storia e non al mito, ma tant’è.
È vero che, in quegli anni negli studi chicagoani, con due band che non suonarono mai dal vivo (gli Hot Five e gli Hot Seven) Louis Armstrong, con la guida sagace della persona più ferrata musicalmente nell’ensemble, la moglie Lil Hardin, mise a punto una serie di piccole e grandi rivoluzioni stilistiche, nella storia del jazz, che diventarono prassi e norma, ma lì iniziarono davvero. Ad esempio il solismo, inteso nel senso moderno di «musicista che prende un assolo accompagnato», e lì, attraverso abilità personale, retorica ben assorbita delle estetiche circostanti, fratture pilotate in quelle stesse estetiche, carisma e intuizione esprime se stesso, diventando riconoscibile. Un passo ulteriore in quel processo di «personalizzazione del suono» che è un’altra delle caratteristiche del jazz e delle note afroamericane (nonché di molte musiche di tradizione orale nel mondo). Il jazz dopo le incisioni Okeh di Satchmo non sarà più lo stesso, ed è in quel contesto che avviene, quasi per caso, l’invenzione del Duo.
Succede quando Armstrong incontra il suo «doppio» speculare alla tastiera del pianoforte, Earl “Fatha” Hines. Quando incidono assieme (il 2 o il 5 dicembre del ’28: il giorno non è chiaro) il primo duetto della storia del jazz Earl Hines ha ventitré anni, e un bagaglio di risorse tecnico-espressive già piuttosto rilevante: arrivava dalla Pennsylvania, aveva fatto il pianista di vaudeville, l’antenato diretto del varietà, dove bisogna sapersi adattare a ogni situazione da palcoscenico con guizzanti risorse strategiche, e aveva conosciuto Louis Armstrong nel 1926.
Il luogo dell’incontro era stato il Sunset Cafe, un posto assai elegante a Chicago dove Satchmo, motivatissimo a farsi una carriera, si trova a suonare nell’orchestra del violinista Carol Dickerson, dove già era stato assunto Hines.
Ambedue, possiamo immaginare, mordevano il freno in orchestra: simile e dirompente la carica individuale di musicalità che volevano far deflagrare, quasi identico il percorso nello strutturare il momento di improvvisazione sulle battute come un climax sapientemente realizzato sull’accumulo di figurazioni e trucchi provati e riprovati, progressivamente affinati. Sta di fatto che quando Hines si trovò a suonare con Armstrong, i due cominciarono ad influenzarsi a vicenda: ne resta traccia evidente nel cosiddetto «trumpet style», lo stile «trombettisitco» che Hines adottò sulla tastiera, calcato proprio sul modo di pilotare le agogiche di Satchmo: dunque con tanto di tremolo finale tenuto sui tasti, a fine assolo, per corrispondere alla «sfarinatura» di note tipica di Armstrong al culmine di una nota lunga e tenuta. Hines e Armstrong incisero assieme tra giugno e dicembre 1928.
E lì nasce Weather Bird, il primo duetto «creativo» della storia del jazz. Creativo, perché già c’era stata una precedente esperienza di incisione in duo pianoforte-cornetta (e non tromba), due brani del ’24 di Jelly Roll Morton e Joe “King “ Oliver, il mentore di Armstrong a Chicago, Tom Cat Blues e King Porter Stomp, dicembre del ’24: interazione di due forze, non dialogo. Weather Bird, secondo Robert G. O’Meally, curatore delle note allo splendido cofanetto che riunisce tutte le incisioni Okeh di Armstrong, è invece un «duetto di angeli» che nasconde un piccolo segreto: quello di apparire totalmente spontaneo e improvvisato mentre, come al solito, la coppia di strepitosi musicisti aveva già preparato da tempo ogni singolo secondo del fantasmagorico incontro, esercitandosi a provarlo dal vivo, quando c’era la possibilità di proporlo.
La fonte era un rag a tre temi scritto da Armstrong nell’aprile del ’23, dunque cinque anni prima delle incisione Okeh con Hines. In altre parole, i due avevano elaborato un vocabolario di «segnali» che garantivano un’interazione musicale strettissima, anche quando le due fonti musicali sembrano danzare sull’orlo del più vertiginoso individualismo. Ed ecco allora, nei due minuti e quarantadue di questo settantotto giri, un gioco velocissimo e perfetto, quasi imprendibile di incastri funzionali tra tasti e pistoni: con il gioco di esposizione che ora tocca all’uno, ora all’altro, con le improvvisazioni che sembrano sgorgare per suggerimento diretto e vicendevole, con un vero e proprio terremoto ritmico che squassa la linearità del dettato metronomico, fino a un clamoroso finale in cui, come ha ben scritto Stefano Zenni, «i riferimenti metrici scompaiono nel nulla, e per qualche istante annaspiamo nel vuoto». È iniziata, ufficialmente, l’era del duo.
E chiunque verrò dopo di loro farà tesoro del lavoro seminale di Fatha e Satchmo.

FUORI I DISCHI
Ecco alcune tra le pietre miliari dell’«approccio in duo»:

Duke Ellington/Jimmy Blanton, The Ellington-Blanton Duets (1940)
Nel 1939 il duca, geniale compositore e bandleader «tutto sorrisi e ventagli», per dirla con Paolo Conte scopre lo smisurato talento di un ragazzo di Chattanooga (ha ventuno anni: morirà due anni dopo di tubercolosi) che suona il basso come nessun altro: non un mero marcatempo per sostenere il gioco di incastri fra le sezioni «swing», e garantire solida continuità ritmica, ma strumento solistico a tutti gli effetti, in grado di far «cantare» anche il registro grave nella panoplia degli strumenti.
Ellington ne è entusiasta, e a conferma ci lascia nel 1940 una serie di formidabili e inediti duetti tra il suo pianoforte e il contrabbasso del ragazzo di Chattanooga che inventano letteralmente una tradizione a venire. Tant’è che nel ’72, in duo con il basso monumentale di Ray Brown, gli dedicherà This One’s for Blanton.

Bill Evans/Jim Hall, Undercurrent (1963)
Romanticismo innervato di ritmo, ritmo strutturato su una facilità di «canto» che sembra spontanea, e invece richiede una superiore capacità di ascolto reciproco. Gli ottantotto tasti di Bill Evans (appena ripresosi dopo il tragico incidente che si portò via Scott La Faro) e le sei corde di Jim Hall creano, all’impronta, una sorta di straniante, dolcissima creatura unica che forse si avvicina all’inesplicabile canto delle sirene che mise a rischio Ulisse. L’interplay qui arriva a livelli quasi paranormali, con una capacità reattiva che farebbe pensare a un unico cervello diviso in due sezioni dialoganti.

Lee Konitz, Duets (1967)
Contando sulle dita di una mano, uno dei più importanti dischi in duo dell’intera storia del jazz. Konitz, contraltista eccelso, sommo magister nell’arte dell’improvvisazione come architettura perfetta e, in buona, sostanza, composizione istantanea (arte appresa nelle dure lezioni con Lennie Tristano) cerca e trova il confronto timbrico, ritmico, melodico perfetto con Marshall Brown, trombone a pistoni. Joe Henderson, tenore, Karl Berger, vibrafono, Eddie Gomez, basso, Dick Katz, piano, Jim Hall, chitarra, Richie Kamuca, tenore, Ray Nance, violino, in un caso doppiando anche se stesso al sax baritono. Chiude il cerchio dei duetti con Alphanumeric, dove si riunisce tutta la compagine, escluso solo il violino ellingtoniano di Nance.

John Coltrane/Rashied Ali, Interstellar Space (1967)
Nel febbraio 1967 John Coltrane forse sa già che non gli resta molto da vivere. Nel conteggio delle parche ha ancora cinque mesi. In quel mese, dunque, intraprende il suo viaggio nello «spazio interstellare» incrociando il suo sax tenore che ormai è una colata lavica di «amore supremo» per il creato con la batteria ubiqua di Rashied Ali, più la fermentazione e l’effervescenza di tutti i ritmi assieme che una direzione unica. Si viaggia davvero con questi duetti finali che ricordano da vicino qualcosa di primordiale, invece: come in 2001: Odissea nello spazio versione Kubrick. È il grido di Sapiens che ascolta stupito il suono del proprio fiato, e batte per terra cercando un ritmo sul quale appoggiarsi. Epitome assoluta di suono che rimanda, di complemento, agli ultimissimi ensemble allargati documentati in incisioni dal vivo uscite negli ultimi anni.

Gil Evans/Steve Lacy, Paris Blues (1988)
Un trentennio dopo essersi incontrati in studio, ecco un crepuscolare capolavoro finale per due teste pensanti del jazz moderno che sembrano distillare poesia zen da una quiete superiore. Lui, il canadese che dalla sua base di New York nella 54° strada fece incontrare John Lewis e Gunter Schuller, Gerry Mulligan e Miles Davis ci mette il suono liquido e ovattato di un piano elettrico, e qualche vola, più di rado, di un piano acustico, Steve Lacy l’unico strumento suo amore per la vita, il sax soprano, indagato con una generosa acribia modello per tutti i sopranisti a venire. Sembra quasi una riflessione finale sullo «stato del jazz», questo lavoro non sempre ricordato: ben tre brani di Mingus, la composizione che intitola, del Duca del jazz, due brani fra i più intensi di Lacy, l’indimenticabile Jelly Roll di Evans, che di Morton non s’era mai dimenticato, come perno centrale della storia del jazz, avendolo già omaggiato nel ’58 di Old Bottles, New Wine.

Abdullah Ibrahim/Johnny Dyani, Echoes from Africa (1990)
La data di pubblicazione non tragga in inganno: era il 7 settembre del 1979 quando il fantastico bassista sudafricano Johnny Dyani, cuore pulsante dei leggendari pionieri jazz Blue Notes – poi espatriati in Europa per sfuggire le atrocità del regime razzistico dell’apartheid – incontrò in studio per questo disco in Germania il pianista conterraneo Abdullah Ibrahim, «scoperto» da Duke Ellington, e un tempo noto come Dollar Brand. Ne scaturì un dialogo serrato e commosso dal fascino «trance» inevitabile: valgano per tutti i sedici minuti di infinita reiterazione e microvariazioni dell’iniziale Namhsanjie. Cordiera del piano, corde spesso del contrabbasso e voci a cercarsi e cercare l’intercessione di qualcosa di molto al di là della nostra comprensione.

Aki Takase/David Murray, Blue Monk (1993)
Aspettatevi scintille, perché i due protagonisti di questo dialogo in musica sono musicisti sornioni che non aspettano altro che l’occasione per innescare incendi di jazz. Caldo, avvolgente, spesso spinto fino al limite espressionistico della rottura della forma, salvo poi, all’ultimo secondo possibile, recuperare le maglie rassicuranti della griglia armonica. Quattro temi da Thelonious Monk, già di per sé edifici sonori dalle molte entrate e uscite possibili, un cammeo per Charles Mingus, il resto loro composizioni in tema. La possente forza di fiato di David Murray al tenore rammenta i grandi di tutte le epoche precedenti, a partire da papà Coleman Hawkins, il clarinetto basso si avventura in terre incognite appena saggiate da Eric Dolphy. Lei, la pianista di Osaka trasferita a Berlino, un elfo mercuriale senza paura nei suoi spazi, e pressoché perfetta in accompagnamento. Il seguito arriverà quasi un quarto di secolo dopo, con Cherry/Sakura.

Charlie Haden/Egberto Gismonti, In Montreal (2001)
Il 6 luglio 1989, l’anno in cui cadeva il muro, l’immenso Charlie Haden, protagonista di molte delle più belle avventure orchestrali (e non solo) del secondo ’900 «schierate» a sinistra assieme a Carla Bley per quasi 80 minuti sul palco del Festival principale del Canada incrocia le sue grandi corde con quelle, vertiginose e sapienti, del brasiliano Egberto Gismonti. Che è anche straordinario pianista. Il sobrio tocco di Haden sul contrabbasso gonfio di armonici sposa alla perfezione l’intelligente creatività di Gismonti, quasi tutte sue composizioni, palpitanti di umori afroamericani, eccetto una Silence da brividi che, ammutolisce l’uditorio, come già era successo con la versione consegnata a quel capolavoro orchestrale che era stato The Ballad of the Fallen.

Paolo Fresu/Uri Caine, Two Minuettos (2016)
Il trombettista di Berchidda ha sempre amato la dimensione dialogica perfetta del duo: dove si parla, e molto bisogna saper ascoltare. L’incontro su un palcoscenico con un musicista avventuroso e ferrato come Uri Caine, come lui onnivora creatura musicale assetata di ogni (bella) musica non poteva che sortire un gioco di piccola squadra pressoché perfetto, e ovviamente impossibile da cintare. Perché qui tromba, flicorno, tocchi d’elettronica e piano passano senza affettazione maliziosa da Mahler a Bruno Lauzi, da Joni Mitchell a Bach, da Gershwin alla meravigliosa compositrice barocca veneta Barbara Strozzi, gran signora dimenticata di linee melodiche dalla bellezza ultraterrena.

Don Byron/Aruán Ortiz, Random Dances and (A)tonalities (2018)
Ortiz è il pianista che, assieme a Omar Sosa, meglio esprime la tensione creativa tumultuosa ancora pienamente all’opera nelle matrici musicali dell’America latina innestata nel gran corpo jazzistico. Don Byron, clarinettista (e sassofonista) dalle enormi potenzialità, è al di là di ogni categorizzazione. Dunque il Duo è foriero di sorprese, scarti laterali, accelerazioni improvvise, imprevedibilità: ricordando la meravigliosa Geri Allen (altra amante dei duetti), Johann Sebastian Bach, Duke Ellington. E oltre