Jazz al fronte, la strategia in una nota
Alina Bzhezhinska, arpista ucraina emigrata nel Regno Unito
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Jazz al fronte, la strategia in una nota

Storie/L’impatto spesso decisivo della musica afroamericana nei periodi bellici. Occhio al ruolo di Jim Europe durante la prima guerra mondiale Un genere utilizzato in passato come arma di propaganda e per allietare le truppe. Oggi tocca anche a rock, pop e classica insistere per la pace
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 aprile 2022

Non c’è solo l’Ucraina: sono circa quaranta le guerre in corso oggi nel mondo, che toccano l’Asia, le Americhe e soprattutto l’Africa. E le guerre, si sa, oltre vittime inermi e danni ecologici, riguardano anche il patrimonio artistico-culturale, dalla distruzione fisica di beni materiali (palazzi, teatri, biblioteche) a diaspore e olocausti dove, a pagare con la vita, sono pure gli artisti che fanno della resistenza o del pacifismo una bandiera espressiva.

Le guerre vengono altresì vissute e raccontate da letteratura, cinema, teatro, musica, arti visive, in presenza o in diretta, a rimanere testimoni indelebili e simboli duraturi di tragedie collettive e di cambiamenti epocali. C’è poi una musica al proposito, il jazz, la cui esistenza ormai secolare, dipende in larga misura dalle guerre combattute dagli Stati Uniti per fronteggiare le condizioni legate agli equilibri mondiali, anche se tutto, per il genere afroamericano, sembra partire da un conflitto interno ottocentesco o da episodi ancor più lontani nel tempo. Infatti, come è noto, la popolazione afroamericana nelle Americhe deriva da un feroce schiavismo che le grandi potenze coloniali dei secoli XVI-XVIII attuano nei confronti dell’Africa equatoriale, facilitate dalle guerre tribali, dove il bottino dei vincitori è la vendita di essere umani ai mercanti europei e mediorientali, dunque cristiani e islamici, in cambio di armi e di oggetti spesso inutili.

ESODO

Il problema della schiavitù nel Nuovo Mondo – esecrata sul Vecchio Continente a partire soprattutto dall’Illuminismo – giunge negli Stati Uniti, a quasi un secolo dalla propria fondazione (1776) a un aperto conflitto tra le contee del Nord abolizionista in via di industrializzazione e il profondo Sud agricolo dalle ideologie razziste: la cosiddetta Guerra di Secessione (1861-1865) tra unionisti e confederati porta ad abolire ufficialmente la schiavitù, ma a peggiorare le condizioni economiche dei neri liberati, i quali sono costretti a emigrare in massa in cerca di lavoro. Ed è proprio da quest’esodo, perlopiù solitario, con mezzi di fortuna, che nascerebbe il blues: l’immagine del giovane con pochi stracci e un’armonica a bocca suonata su vagoni merci vuoti, nei lunghi viaggi su treni presi al volo mentre il convoglio rallenta, diventa quindi emblematica, benché non esistano testimonianze storiche dirette, ma soltanto le voci dei bluesmen di almeno due-tre generazioni successive: Daddy Stovepipe, Blind Lemon Jefferson, Leadbelly, Big Bill Broonzy, Robert Johnson.

Il blues, i cui testi urlano soprattutto la disperazione individuale, facendo péndant con il riscatto nell’Aldilà del canto spiritual, è alla base della nascita del jazz, il cui exploit popolare è dovuto all’entrata in guerra degli Usa nel primo conflitto mondiale: in quegli anni il ragtime, l’hot, il dixieland sono visceralmente legati alla città portuale di New Orleans dove, nel Red Light District, già da inizio Novecento, si esibiscono soprattutto le band di grandi cornettisti quali Buddy Bolden, Freddy Keppard, Joe King Oliver; nel momento in cui, entrando in guerra, il governo americano decide di fare della Jazz City la base operativa della marina militare, alcuni senatori chiedono di moralizzare la città, temendo che le lusinghe del quartiere a luci rosse, tra bordelli e dancing, possano fiaccare le truppe: i posti equivoci vengono sgomberati, assistendo, come descritto dai reportage giornalistici, a un esodo quasi biblico di prostitute e jazzisti verso le metropoli del nord del paese.

Per il jazz sarà un colpo di fortuna, nel senso che, invece di limitarsi a fenomeno locale (già comunque noto e apprezzato), diviene, negli anni Venti, l’american music per antonomasia, grazie all’accoglienza riservata dalle metropoli operaie quali Chicago, dove ad esempio la Creole Jazz Band di Oliver gode di un successo inaspettato, al punto che il leader vorrà essere affiancato da una seconda cornetta e richiamerà un giovane rimasto in Louisiana in attesa di un ingaggio; il ragazzo si chiama Louis Armstrong: e il resto è storia. Ma la Grande Guerra fa conoscere il jazz pure agli europei, quando, con la vittoria, nel 1919, l’orchestra militare di Jim Europe – mai cognome risulta così appropriato! – si esibisce per la prima volta davanti a un pubblico che dei suoni afroamericani conosce solo qualche pallida imitazione per via delle tournée belliche dei minstrel show o di altri spettacolini «esotici».

ARRIVANO I V-DISC

Durante la seconda guerra mondiale il jazz che, grazie allo swing, da circa un lustro, gode di una diffusione internazionale, viene sistematicamente usato in chiave propagandista da ambo le parti in causa; i nazisti a Berlino, tra il 1941 e il 1942, presentano, in radio e su dischi, Charly & His Orchestra, reclutando con l’inganno i migliori solisti europei (anche il trombettista italiano Nino Impallomeni) per un repertorio di noti standard, i cui refrain cantanti in inglese hanno nuovi testi denigranti gli eserciti angloamericani.

Per contro, gli americani, oltre a diffondere la propria musica via radio, inviano numerose big band (anche femminili) sui fronti europeo e asiatico ma soprattutto inventano i V-disc come gadget per le truppe, che, a loro volta, possono regalare, assieme a cioccolato e chewing-gum, alle genti liberate: i Dischi della Vittoria sono 78 giri, registrati appositamente per l’U.S. Army, dai migliori artisti (in prevalenza jazzisti) a scopi no-profit, arrivando persino, di comune accordo, a distruggere le matrici originarie per evitare duplicazioni illecite, con evidente scorno, da parte dei musicologi, a fine guerra, costretti ad assurde peripezie onde recuperare un patrimonio discografico immenso di assoluto valore culturale.

Se i V-disc – 2700 brani 906 dischi – alleviano momentaneamente i dolori causati dal nazifascismo, la guerra vede diversi caduti anche fra i jazzisti: iconica resta la figura del trombonista e bandleader Glenn Miller, che si arruola, con il grado di capitano (poi maggiore), nell’aviazione americana: suona a Londra negli ospedali per i feriti, esibendosi all’aperto persino sotto i bombardamenti, ma precipita nella Manica su un aereo UC-64 Norseman, la notte del 15 dicembre 1944, destinazione la Parigi liberata: la caduta è forse dovuta al maltempo o a un errore della contraerea britannica, benché l’episodio venga narrato come sacrificio di un artista alla causa della democrazia contro il nazifascismo. Ad attenderlo invano all’aeroporto francese vi sono i membri della propria Army Air Force Band – che verrà sciolta, mentre la Glenn Miller Orchestra, come tale, proseguirà fino a oggi – e quelli del combo di Django Reinhardt, il quale è ancora in clandestinità nel sud del paese.

Le vicende del grande chitarrista gitano, durante l’occupazione, risultano travagliate: nei primi anni del conflitto, sull’onda dei precedenti successi, ad ascoltarlo con o senza il Quintette du Hot Club de France, nei localini del Quartier Latin, arrivano ufficiali nazisti, spie inglesi, partigiani concittadini; poi con il rastrellamento degli zingari per i lager da parte delle SS, è costretto a tentare la fuga verso la Svizzera, dove viene respinto: sopravvive in incognito suonando nei paesini del Midi sino al termine delle ostilità, per dedicarsi in seguito alla pittura e torna al jazz con lo strumento elettrico negli ultimi periodi della sua breve esistenza, muore nel 1954 appena quarantenne.

Sul fronte europeo orientale, il «Louis Armstrong bianco» Eddie Rosner (aka Ady Rozner) berlinese ebreo, fugge in Polonia, poi in Ucraina e in Russia, dove l’allora nomenclatura consente che proponga lo swing 1alleato» per l’Armata Rossa, salvo poi rinchiuderlo in un gulag siberiano, a guerra finita, con l’accusa di musicista decadente, borghese, filoamericano e antisovietico: verrà comunque riabilitato nell’era Kruschev, con la denuncia dei crimini di Stalin. Altri jazzisti ebrei finiscono ad Auschwitz, Dachau, Treblinca, Buchenwald, senza farne ritorno come il favoloso duo olandese Johnny & Jones o i membri dei Ghetto Swingers costretti a suonare presso Therezin, in una finta città-modello, davanti alla Croce Rossa, per essere spediti, il giorno dopo, nei forni crematori. Dalla morte sicura si salva, fuggendo, durante uno spostamento a piedi, il chitarrista ebreo tedesco Coco Schumann – costretto ad assistere, suonando lo strumento, a decine di impiccagioni di prigionieri – il quale tornerà a suonare jazz in America e in Australia, poi nella sua Berlino riunita, ma timoroso di svelare i propri drammatici trascorsi fino al 1999, quando pubblica l’autobiografia Der Ghetto-Swinger: Eine Jazzlegende Erzahlt che commuove i lettori di tutto il mondo, salvo quelli italiani visto che il libro, vergognosamente, non è ancora tradotto.

Qualcuno se la passa male anche in Italia e a farne le spese, in termini di carriera, è soprattutto il Trio Lescano delle sorelle olandesi Alessandra, Giuditta, Caterinetta Leschan, arrestate durante un concerto a Genova e trattenute per alcuni giorni nel carcere di Marassi, con l’accusa di spionaggio, perché un fascista zelante legge tra le righe dei testi delle loro canzoni (peraltro scritte molti anni prima) alcuni messaggi cifrati per l’intelligence britannica; scagionate, ma timorose di essere perseguite a causa della madre ebrea, le ragazze si nascondono, per il resto del conflitto, in una baita valdostana: incolpate, a fine guerra, di simpatie fasciste negli anni Trenta (per il solo fatto di essere dive dell’Eiar), avranno la carriera distrutta, nonostante un tentativo di ripresa con le tournée e poi il trasferimento in Sudamerica.

IL DISGELO

Dopo la guerra fredda e dopo il cosiddetto disgelo inaugurato da iniziative culturali Usa-Urss, a partire dai recital di Benny Goodman a Mosca e Leningrado, il conflitto che, durante i Sixties, coinvolge ancora una volta i musicisti americani è quello del Vietnam, in una situazione diametralmente opposta. Ritenuta «la sporca guerra» dai giovani (che protestano fino a mettersi dalla parte dei vietnamiti aggrediti dagli yankee sostenitori di un governo-fantoccio), sono soprattutto gli esponenti del rock e del folk, da Joan Baez a Phil Ochs, fino ai memorabili interventi di Jimi Hendrix e di Country Joe & The Fish al festival di Woodstock a contestare la leva obbligatoria e l’intervento imperialista. Benché giungano anche qualche blues – sono tre i Vietnam Blues incisi via via da JB Lenoir, Champion Jack Dupree e Kris Kristofferson – o il brano funky jazz Compared to What (1971) di Les McCann e Eddie Harris, le risposte più eclatanti alla guerra in Vietnam sono di altre due tipologie: da un lato i cartelloni pacifisti e il «bed in» a Toronto di John Lennon e Yoko Ono; dall’altro l’ingaggio del quintetto femminile toscano Le Stars nelle basi militari più o meno vicine a Saigon: la giovanissima band, ignara di quanto stia accadendo, riuscirà a fuggire sotto le bombe, non senza constatare lo strisciante razzismo tra gli ufficiali statunitensi bianchi che impediscono alle ragazze di eseguire, in loro presenza, brani soul e r’n’b, richiestissimi invece dalla truppa interrazziale. Da allora a oggi le numerose guerre «dimenticate» ridiventano talvolta argomento jazzistico, soprattutto quando i neri americani ad esempio sostengono in musica le lotte dei movimenti di liberazione sul continente africano a partire dal brano Calypso Frelimo e dall’album Tutu di Miles Davis, rispettivamente dedicati alle battaglie per l’indipendenza in Mozambico e all’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu ostile all’apartheid. Ci sono infine anche jazzmen europei, come l’italiano Gaetano Liguori, esposto di persona in vari «teatri di guerra»; con quasi mezzo secolo di dischi a «parlare chiaro» – da Cile libero Cile rosso a Un pianoforte per i giusti passando per I signori della guerra, Terzo Mondo, Que viva Nicaragua, Noi credevamo, – l’Idea Trio del pianista milanese è presenza fisica a Baghdad in Iraq a sostegno della pace, poco prima della Guerra del Golfo.

Ma oggi purtroppo la storia si ripete e l’intento di Herbie Hancock, nella creazione dell’International Jazz Day, con il sostegno dell’Unesco, ogni 30 aprile, dal 2013 a promuovere il jazz quale messaggero di pace, forse oggi a Kiev, Leopoli, Odessa, dove fino al 24 febbraio scorso si ascolta grande jazz, sarà purtroppo accolto da uno spettrale silenzio o forse basterà il suono di un sassofono o una chitarra nelle metropolitane adibite a riparo sicuro per destare la speranza, oltre l’animo popolare mai sopito.

RACCOLTA FONDI

Al momento l’unica significativa esperienza contro la guerra in Ucraina è il concerto tenutosi il 13 marzo al Cockpit Theatre di Marylebone a Londra, per raccogliere fondi per i soccorsi e per le vittime della guerra, grazie all’intraprendenza dell’arpista Alina Bzhezhinska, solista virtuosa in grado di spaziare dalla classica al rap, attraverso il post bop e il nu jazz, da dieci anni nel Regno Unito, dove lavora con musicisti di spicco, molti dei quali come l’Hip Harp Collective con Tony Kofi e Vimala Rowe, oltre ai vari Niki King, Neil Charles, Alex Webb, Jo Harrop, Cleveland Watkiss, GéNIA, Shabaka Hutchings, presenti all’iniziativa.

«Il mio paese sta bruciando – dice Alina – e in quanto nativa ucraina ed essere umano, non posso tacere. Vorrei poter andare a combattere al fianco della mia famiglia che è tutta nella resistenza, ma devo rimanere dove sono e usare la mia musica come arma. Mia madre mi ha detto che devo essere forte per tutti gli ucraini e suonare la mia musica per mostrare a loro solidarietà e per dare conforto e amore alla mia gente. Sono molto orgogliosa dei miei amici e della mia famiglia e a chi, ovunque, si oppone al male in questo momento. L’Ucraina è sempre stata un paese europeo; ha persone straordinarie, che vogliono solo vivere in pace e armonia con il resto del mondo. Sono state spinte a diventare combattenti, ma sono musicisti e artisti, medici e avvocati, casalinghe e insegnanti e tutti loro ora sono uniti contro l’aggressore che vuole uccidere la democrazia e la libertà nel proprio paese (…) la pace è così fragile al momento e il mondo ha bisogno di questa pace. al massimo livello».

FUORI I DISCHI

  • Lieut. Jim Europe’s 369th U.S. Inf. («Hell Fighters») Band The Complete Recordings. Pathé, 1919 (Memphis Arc hives)
  • Charly and His Orchestra Let’s Go Bombing, 1941-1942 (Bob’s Music)
  • Eddie Rosner Meeting Song: 100 Years of Eddie Rosner, 1940-1970 (Melodya)
  • Glenn Miller and His Orchestra On the Radio: The Chesterfield Shows, 1939-1942 (Acrobat)
  • Aa. Vv. V-Discs. Gli anni d’oro della musica americana, 1943-1949 (Fonit-Cetra)
  • Aa. Vv. Swing Tanzen Verboten, 1929-1954 (FabFou)
  • Coco Schumann Double (50 Years in Jazz), 1947-1997 (Trikont)
  • Trio Lescano Dai microfoni dell’E.I.A.R., 1936-1942 (Rhino Records)
  • Benny Goodman In Moscow, 1962 (RCA Victor)
  • Country Joe McDonald War War War, 1971 (Vanguard)
  • Gaetano Liguori e Giulio Stocchi La cantata rossa per Tall El Zataar, 1977 (Radio Popolare)
  • Alina Bzhezhinska Inspiration, 2018 (Ubunti Music)

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