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Jazz 1959, l’era del capolavoro

Jazz 1959, l’era del capolavoroMiles Davis nel 1959 durante le registrazioni di Kind of Blue

Storie/Sessant’anni fa il genere si reinventa tra ricerche modali, pulsioni free, bossanova Nei 12 mesi in cui Miles Davis incide «Kind of Blue» è racchiuso tutto il mondo della musica afroamericana, passata, presente e futura

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 28 settembre 2019

Nell’anno della rivoluzione cubana di Fidel Castro e Che Guevara, nell’ennesima rielezione di Charles De Gaulle alla presidenza francese, del veto all’ingresso della Cina nell’Onu, di Alaska e Hawaii nuovi membri degli States, di una cultura sempre più mediatizzata anche in senso elettrico (lancio delle musicassette, larga diffusione degli impianti stereo, clamorose vendite di televisori, radio transistor e giradischi nel mondo), il jazz recita il proprio ruolo sempre più antagonistico, che solo tre anni prima sembrava appannaggio del rock’n’roll. Ma il rock nel 1959 segna una battuta d’arresto, sia pur momentanea (prima insomma dell’affermarsi di Bob Dylan e dei Beatles,nel giro di due-tre anni), dovuta a cause extramusicali: la naia di Elvis Presley a Berlino, lo scandalo payola (vittima il dj Alan Freed), l’arresto di Chuck Berry per favoreggiamento della prostituzione, la conversione religiosa di Little Richard e soprattutto lo schianto aereo su cui volano Big Bopper, Ritchie Valens e Buddy Holly. In tal senso il 1959 viene ricordato ancora oggi per la morte a soli 22 anni di Holly, il più cantautorale fra tutti i rocker, menzionato 13 anni dopo, nel film American Graffiti, con una battuta rimasta proverbiale, messa in bocca a un ipotetico ragazzino della provincia Usa nel 1962: «Il rock non è più lo stesso da quando è morto Buddy Holly». Una frase ripresa ogni volta che scomparirà un giovane mito, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse e via dicendo.
WORK IN PROGRESS
Non si dice altrettanto, nel 1959, della scomparsa di Billie Holiday, Lester Young, Sidney Bechet, tre maestri assoluti, ma riconosciuti come tali molto tempo dopo, perché subito «rimpiazzati», nei cuori e nei gusti dei jazzofili, da altri numerosi geniacci: in tal senso il 1959 resta per tutti l’anno dell’invenzione del modale, dei primi vagiti free, della scoperta Usa della bossanova, di un lustro di hard bop vissuto sempre più intensamente, del canto del cigno del cool jazz, del perdurare di ottimi esempi di mainstream e dixieland: insomma in un solo anno è racchiusa tutta o quasi la storia del jazz presente, passato e «futuro», prefigurando, mediante decine di grandi album e di memorabili concerti, circa un secolo di sound afroamericano, prima e dopo lo stesso arco spaziotemporale, con un work in progress velocissimo.
La lista dei capolavori resta lunghissima come forse non mai nelle vicende della black music affrontata per annualità: nel 1959 esce anzitutto Kind of Blue, che oggi è ritenuto il vinile per antonomasia nella storia del jazz e quello più venduto alla distanza, come un long seller alla pari, nell’editoria, di libri più o meno quali Il giovane Holden di Salinger o Sulla strada di Kerouac. La novità assoluta del disco è il nuovo gruppo del leader trombettista Miles Davis che, oltre ad affiancare due nuovi astri sassofonistici (John Coltrane e Cannonball Adderley), chiama l’unico bianco in sala di registrazione: Bill Evans, dagli echi impressionisti (si fanno persino i nomi di Debussy o di Chopin, quando si accosta a certo romanticismo), firma, non accreditato, un brano, Blue in Green, dove l’improvvisazione è basata sulle scale e non, come accade nell’hard bop, quale variazione sul tema o sugli accordi. Nasce dunque il jazz modale che lo stesso Miles, in parte Cannonball, ma soprattutto Coltrane porteranno alle estreme conseguenze. A livello simbolico, rispetto ad altri dischi, è un lavoro che incarna l’ulteriore desiderio del popolo afroamericano di farsi arte e cultura, accettando le nuove regole dedotte da antiche tradizioni occidentali (i modi risalgono all’antica Grecia, come scoperto da un altro jazzman, il pianista e teorico George Russell), appunto rimaneggiandole o rimodernandole fino a svincolare la progressione di accordi dalla tonalità dei singoli brani.
RIVOLUZIONE SOCIALE
Del resto, per il jazz, il 1959 forse è l’anno di «prova» verso una rivoluzione sociale, nell’accezione di una messa a punto di valore artistici ereditati da un presente inquieto, non ancora somatizzato mediante un deciso impegno politico a livello organizzativo, ideologico, comunicazionale, persino religioso, come avverrà soltanto uno-due anni dopo.
In tal senso le anticipazioni rivendicatorie del Sonny Rollins Trio di Freedom Suite (1957) vengono recuperate, integrate, aggiornate all’inizio del nuovo decennio quando Max Roach registrerà la sua We Insist! Freedom Now Suite! mettendo l’accento sull’urgenza dell’«adesso e subito»: l’idea di un concept album per celebrare polemicamente il centenario del lincolniano e disatteso Proclama di emancipazione nasce, assieme al paroliere Oscar Brown, già in quel 1959, in cui i due ascoltano probabilmente il brano «censurato» di Charles Mingus Fable of Faubus o magari qualche «sermone» di due antitetici predicatori. Martin Luther King e Malcolm X nel 1959 arrivano infatti, più o meno contemporaneamente, a rivolgersi soprattutto al popolo nero che inizia a conoscere due leader, in grado di offrire, anche a livello mediatico, il proprio carisma al servizio rispettivamente di marce pacifiste o di rivolte agguerrite: e proprio in quei mesi da un lato il Reverendo di Atlanta prende coscienza dell’ars oratoria nel fare proseliti seguendo un processo dove due avvocati afroamericani convincono una giuria tutta bianca dell’innocenza del proprio cliente; dall’altro il signor Little, con il nome di El-Hajj Malik El-Shabazz, si stabilisce a New York e si attiva sempre più quale leader dei Black Muslim ormai in ascesa, aprendo, durante i Fifties, decine di moschee, dove predicare un rabbioso separatismo nero. Nel 1959 né King né Malcolm possono vantare molti seguaci tra i jazzmen (semmai qualche divo sinceramente pacifista oppure musicisti con il nuovo appellativo musulmano), perciò gli episodi più «politici» riguardano soprattutto la vita notturna nella Grande Mela, fra droga, razzismo, violenza, discriminazione, ma anche entusiasmi, creatività, amicizie, collaborazioni artistico-intellettuali.
CRONACA
Alcuni episodi di cronaca però, in una prospettiva storica, oggi assumono un valore simbolico sul trattamento riservato ai jazzisti (non solo neri) da parte delle autorità istituzionali: ad agosto, fuori dal Birdland, dove si esibisce in quintetto, Miles Davis è picchiato da un poliziotto e condotto in questura, mentre una foto del volto ferito e della giacca insanguinata fa il giro del mondo; ad Harlem Chet Baker, condotto in galera per una modesta quantità di eroina, si vede costretto a lasciare gli Stati Uniti, girovagando per l’Europa e scontando pure un anno di carcere in Italia, sempre per uso e detenzione di stupefacenti; per il trombettista bianco, però, il 1959 è l’anno di quelle che discograficamente sono ora chiamate Milano Sessions, tre sedute per due lp originali in compagnia di tutti italiani (Franco Cerri, Gianni Basso, Fausto Papetti, Renato Sellani) con gli arrangiamenti e le direzioni di Ezio Leoni e Giulio Libano: un traguardo importantissimo per lo swing nostrano, spostatosi dal tranquillo stile californiano verso un più grintoso hard bop.
Ma per l’iter della musica forse è più decisivo, rilevante, politico, a livello simbolico, il portato di altri eventi culturali, vicini alla «giusta causa» del jazz e degli afroamericani: a teatro la pièce La morte di Bessie Smith di Edward Albee; al cinema il documentario Jazz in un giorno d’estate di Bert Stern, la fiction «improvvisata» Ombre di John Cassavetes (con musiche di Charles Mingus), la colonna sonora di Martial Solal per Fino all’ultimo respiro (regia di Jean-Luc Godard); per i libri i saggi critici The Jazz Scene di Francis Newton (pseudonimo del cattedratico inglese Eric Hobsbawm che scrive la prima analisi sociologica sull’argomento), Plaisir du jazz di Dennis Stock (volume di fotografie di un grande reporter che dà il via al photobook sul jazz), The Art of Jazz di Martin Williams (saggi di approfondimento sulla natura e sullo sviluppo della musica afroamericana); per i luoghi l’apertura a Londra del Ronnie Scott (voluto dall’omonimo saxman britannico) e l’accoglienza al newyorkese Five Spot di Ornette Coleman e Don Cherry che per la prima volta suonano free dal vivo.
PROFEZIE
Quest’ultimo, piccolo avvenimento risulta di una valenza storica eccezionale: benché nessuno lo indichi ancora come free (né tantomeno quale new thing) ciò che i due propongono al sax alto e alla tromba, coadiuvati da Charlie Haden (contrabbasso) e Billy Higgins (batteria) è un sound informale privo insomma di centri tonali o di regole costituite nel ribaltare armonie e ritmi, che viene in parte sperimentato nei due album da poco in commercio The Shape of Jazz to Come e Change of Century dai titoli profetici, ma che vedrà la piena attuazione solo l’anno successivo grazie al seminale Free Jazz in doppio quartetto. Le performance di Coleman al Five Spot lasciano esterrefatti pubblico e critica come non accade da tempo: al momento, persino tra i progressisti amanti del jazz moderno, sono rari i sostenitori, mentre abbondano gli scettici, i quali sostengono che il rinnovamento del jazz medesimo possa avvenire in altre due distinte maniere: recuperando il senso del gospel primigenio oppure insistendo sull’integrazione della musica classica, in entrambi i casi senza mai rinnegare, anzi aumentando la presenza dello swing e del blues, feeling intesi come un indefinibile valore della sensibilità e dell’istinto. E quale duplice corrispettivo di tali ragionamenti vengono indicati i due album The Genius of Ray Charles e Time Out del Dave Brubeck Quartet, corroborati da un exploit imprevisto: infatti da entrambi vengono tratti due 45 giri – What’d I Say e Take Five – che scalano ben presto la top ten Usa, risultando ancor oggi tra i brani jazz più ascoltati in assoluto.
PUNTO D’ARRIVO
Ma il fatto che What’d I Say venga indifferentemente citato in tutte le discografie di rock, di soul, di r’n’b e ovviamente di jazz e che Take Five resti tuttora l’unico brano di jazz strumentale a figurare in alta classifica risulterà sia per Ray Charles sia per Brubeck un punto di arrivo, da cui entrambi non riusciranno più a riprendersi sul piano dell’originalità espressiva: seguiranno per Ray e Dave altri grandi dischi, ma in fondo di «retroguardia» nei confronti di quanto provato, inventato, connotato durante gli interi Fifties. Coloro che invece, grazie al 1959, proseguiranno in una ricerca artistica spasmodica saranno Miles Davis, John Coltrane, Charles Mingus, Ornette Coleman, Cecil Taylor, Sonny Rollins, Sun Ra che, durantegli anni Sessanta, porteranno a compimento la grande rivoluzione del jazz afroamericano, in chiave sperimentale e in ottica neoavanguardista.

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