Cultura

Janice Pariat, il viaggio di una foglia e degli esseri viventi

Janice Pariat, il viaggio di una foglia e degli esseri viventiJanice Pariat, foto Wikicommons

GEOGRAFIE Parla la scrittrice indiana a proposito del suo «Tutto ciò che la luce tocca». Per Salani l’ultimo romanzo dell’autrice che sarà ospite a Roma il primo di ottobre alla Casa di Goethe. «L’oralità è un omaggio alla comunità cui appartengo. È associata allo spazio delle donne quando si riuniscono, condividono storie e cantano»

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 28 settembre 2024

«Quasi dieci anni fa mi aggiravo nei giardini della Cattedrale di Salisbury nel Regno Unito e mi sono imbattuta in una piccola mostra dedicata alle botaniche vittoriane ed edoardiane. Queste donne hanno viaggiato per il mondo, hanno raccolto piante, le hanno dipinte e hanno condotto vite turbolente, facendo cose che le donne non ci si aspettava facessero all’epoca». La gestazione dell’ultimo romanzo di Janice Pariat, Tutto ciò che la luce tocca (Salani, pp. 512, euro 20, traduzione di Erica Mazzi e Alice Provenghi) affonda in un ricordo lontano e esatto: «All’improvviso – prosegue la scrittrice nata in Assam e cresciuta a Shillong, Meghalaya – il personaggio di una giovane donna edoardiana in viaggio da Londra al nord-est dell’India è entrato nella mia mente».
Janice Pariat ha esordito nel 2012 con Boats on Land, due anni dopo ha scritto Seahorse (entrambi tradotti in oltre dieci lingue) ma in Italia è arrivata con il suo terzo romanzo: The Nine-Chambered Heart (2017, Le nove stanze del cuore, Bompiani 2022). Editrice di «Pytra», rivista online di narrativa, fotografia e poesia, vive tra Londra e New Delhi e il primo di ottobre sarà ospite a Roma, alla Casa di Goethe (via del Corso 18, ore 19).

Nel suo «Tutto ciò che la luce tocca», il filo che connette Shai, Evelyn, Linneus e Goethe è la botanica, maneggiata per descrivere i diversi approcci che si possono avere verso il mondo. Vi sono sguardi che accolgono, altri che dissezionano e sistematizzano. Nel suo linguaggio letterario, voleva mostrare questa complessità?
Il mio interesse risiede nell’intersezione tra botanica e filosofia – quindi, per esempio, possiamo dire «come vedi una pianta è come vedi il mondo». Guardare una pianta in segregazione e separazione, come tante parti che compongono un intero, oppure guardarla come una totalità in cui ogni parte conduce il tutto al suo interno. Linneo, il botanico e tassonomista, è posto al centro del mio romanzo per incarnare un modo di vedere il mondo attraverso la dissezione, mentre gli altri, Shai, Evie e Goethe, gli girano intorno mettendolo in discussione e offrendogli resistenza, in una propensione a ridurre il mondo in parti immutabili. Dicendo cioè che vi sono modi che non seguono questa via, preferendo invece l’interconnessione.

Shai ed Evelyn evidenziano una differenza esistente fin dai loro corpi sessuati. Vivono in epoche diverse ma sono creature non convenzionali spinte da una ricerca che parta dalla loro stessa vita. In questa sponda, la conoscenza ancestrale gioca un ruolo centrale, quella indigena come quella degli alberi, anche quando immaginaria. Quanto è significativa l’oralità nel suo romanzo?
L’oralità svolge diversi ruoli importanti nel mio romanzo. Per cominciare, è un omaggio alla comunità a cui appartengo nel nordest dell’India, che è in gran parte una comunità orale, per la quale il canto e la storia sono appunto cantati e raccontati, ed è così che ho imparato per la prima volta ad amare la narrazione, nella sua forma orale vivace. Nel mio romanzo, la lotta è tra fissità e fluidità – categorizzazione e totalità – e quindi per estensione coinvolge la lotta tra scrittura e oralità. La scrittura tende a fissare e solidificare mentre l’oralità esiste in forme multiple, sfuggenti, mutevoli.

L’oralità è stata anche storicamente associata allo spazio femminile, delle donne che si riuniscono e condividono storie, delle donne che cantano – mentre la scrittura era il dominio degli uomini, poiché erano loro ad avere accesso a un’istruzione che gli consentiva di scrivere. Nelle mie pagine c’è anche un appello a scartare dall’«ipermaschile» e tornare al «femminile», al delicato e compassionevole – non solo in relazione l’uno all’altro, ma nel nostro modo di essere nel mondo naturale.
Data la mia formazione all’interno di una comunità orale nel nordest dell’India, sono inoltre debitrice, in primo luogo, ai narratori della mia vita, la maggior parte dei quali non ha mai scritto un libro, e alcuni dei quali non hanno imparato a leggere o scrivere. Ma raccontavano storie meravigliose. Piene di sorprese e incantesimi.

Parliamo di colonialismo, perché il metodo seguito da Linneo, secondo cui «Se non conosci i nomi, muore anche la conoscenza delle cose», contiene una contraddizione quando quegli stessi nomi nascondono gerarchie altrettanto radicate.
L’atto di nominare è un atto di potere e autorità – soprattutto quando avviene in un contesto coloniale. I colonizzatori hanno viaggiato per il mondo «scoprendo» terre, persone, piante come se tutto questo fosse esistito fino ad allora senza una propria storia e agency. È ancora una volta un modo di vedere il mondo che ha poi permesso il saccheggio e lo sfruttamento del progetto coloniale. È una modalità che non riconosce le storie degli altri, che non le considera importanti e valide. Nel libro, Linneo sta viaggiando attraverso la Lapponia per un rilevamento «scientifico» finanziato dal governo svedese per verificare quanto «utile» la regione potesse essere per scopi agricoli. I Sami indigeni e il loro modo di vivere vengono per lo più ignorati o trattati come una curiosità. Linneo attraversa la terra dando nomi alle piante che «scopre» con poca considerazione del fatto che siano già intessute nel loro proprio ricco e complicato contesto indigeno.

Nel suo romanzo, Goethe è descritto durante il viaggio in Italia, in relazione alla sua passione della botanica. Il superamento del paradigma sistematico è riconoscibile nell’attenzione verso il panteismo di Spinoza?
Goethe è stato una figura letteraria e culturale così importante in Germania, in Europa e in tutto il mondo, eppure è (ancora) poco conosciuto come scienziato. Tanti lettori mi hanno detto che non avevano idea di questo suo lato. Si ritiene che i risultati scientifici di Goethe siano difficili da valutare, data la sua impostazione sincretica e a volte mistica, ma è un esercizio imperativo, soprattutto perché la pratica della scienza (occidentale) si è rivolta sempre più verso la quantificazione e il quantificabile. La scienza goethiana, o la coscienza scientifica di Goethe, richiede una metodologia che si basi sull’intuitivo, sull’immaginativo, sul vivente, sul poetico – ed è, più importante ancora, un modo in cui il divario tra la scienza occidentale e la scienza indigena, praticata da comunità in tutto il mondo, può essere colmato.

Goethe era infatti profondamente influenzato da Spinoza – identificava Dio con la natura, credeva che le parti finite contenessero in sé il tutto – e questo si poteva vedere più chiaramente negli studi di Goethe sulla natura, soprattutto sulla botanica. Ci sono due aspetti: metafisico ed epistemologico. In relazione al primo, Goethe credeva che a causa di un Bildungstrieb le cose tendessero a una perfezione e complessità maggiori – un’idea che vediamo nel suo Bildungsroman, in cui i protagonisti si sviluppano verso il loro vero essere. Nel rilievo epistemologico, Goethe desidera soprattutto comprendere, o aggrapparsi, all’essenza delle cose da cui scaturiscono tutte le altre proprietà. Per lui, questa essenza è un archetipo o ideale afferrato intuitivamente. Ecco perché, nel romanzo, è in una certa ricerca per trovare «la pianta originale». Che, ovviamente, è convinto di trovare in Italia, a causa del suo clima e della sua bellezza.

Cambiamento climatico, crisi e collasso sembrano essere il controcanto di un possibile orientamento, presente nel suo romanzo per invitare ad abitare il mondo accanto agli esseri viventi (non solo umani, ma anche piante, animali, ecc.) da un’altra prospettiva.
Sono interessata alla lunga prospettiva che storicizza la crisi climatica e riconosce che anche se questa «crisi» sembra essere una preoccupazione contemporanea, è iniziata molti secoli fa. In realtà, può essere fatta risalire all’Illuminismo europeo, quando il rapporto tra esseri umani e mondo vivente è passato a uno di dominio, categorizzazione e controllo. Non possiamo presumere di affrontare la crisi climatica e trovare soluzioni a lungo termine senza il riconoscimento di questo profondo contesto. E non sono l’unica. Recentemente, l’autore indiano Amitav Ghosh ha pubblicato The Nutmeg’s Curse (La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi, Neri Pozza, ndr), che impiega questa lunga prospettiva e sostiene che la dinamica della nostra attuale crisi ecologica affonda le radici nelle forze secolari del colonialismo e del capitalismo occidentali. La nostra crisi, dimostra, è in definitiva il risultato di una visione meccanicistica della terra, in cui la natura esiste solo come una risorsa per gli esseri umani da utilizzare per i nostri stessi scopi, anziché come una forza a sé stante, piena di agency e di significato. Il mio romanzo segue questa tradizione di pensiero – ecco perché cerca di collocare queste storie, nei loro secoli, in una culla di tempo ampia che le collega e ci mostra che, per banale che possa sembrare, tutto è veramente connesso.

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