Janet Lewis, la vittoria del sospetto sulle apparenze
Gérard Depardieu in «Il ritorno di Martin Guerre di Daniel Vigne», 1983
Alias Domenica

Janet Lewis, la vittoria del sospetto sulle apparenze

Scrittrici statunitensi Suggestiva rielaborazione letteraria di un clamoroso caso di furto di identità del Cinquecento: il romanzo breve della scrittrice statunitense Janet Lewis, «La moglie di Martin Guerre», da Racconti Edizioni

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 aprile 2022

Una mattina d’autunno del 1548, per evitare un conflitto con il padre autoritario e violento, il piccolo possidente terriero Martin Guerre si allontana dal suo podere nel villaggio pirenaico di Artigues (o Artiget), abbandonando la giovane moglie Bertrande e il figlioletto Sanxi. L’assenza, che doveva durare pochi giorni, si protrae per otto lunghi anni, durante i quali la donna non ha notizie del marito, finché un giorno si presenta un uomo che dichiara di essere Martin Guerre. Il vecchio padre è ormai passato a miglior vita, ma in paese tutti sembrano riconoscere Martin, i domestici gioiscono al ritorno del padrone e persino le sorelle e lo zio Pierre salutano con affetto il parente redivivo, che prende il posto di capofamiglia. Solo Bertrande rimane incerta: possibile che Martin sia cambiato così tanto e che Sanxi, ormai cresciuto, non somigli per nulla al padre?

Nonostante i dubbi la donna accoglie sotto il tetto coniugale quell’uomo gentile, intraprendente e benvoluto da tutti, a cui darà anche un figlio. Tuttavia, col passare degli anni, i sospetti aumentano invece di dissolversi, finché Bertrande, sopraffatta dall’angoscia di vivere nella menzogna e d’accordo con Pierre, decide di denunciare pubblicamente l’impostore. Il processo, a cui pare abbia assistito anche il giovane Montaigne, sta per chiudersi con l’assoluzione dell’accusato, ma al momento della sentenza si fa avanti un uomo che giura di essere il vero Martin Guerre.

A tramandare il fatto di cronaca – uno dei più celebri casi di furto di identità della storia – è il giudice del processo, Jean de Coras, che lo riporta nel suo libro Arrest memorable du parlement de Tolose, pubblicato nel 1561 e più volte ristampato. Nel corso dei secoli la vicenda di Martin Guerre è stata oggetto di studi storici, tra cui quello di Natalie Zemon Davis (uscito per Einaudi nel 1984 e riproposto di recente da Officina Libraria), ma soprattutto si è rivelato feconda materia romanzesca: dalla poetessa inglese settecentesca Charlotte Smith a Alexandre Dumas padre fino a Leonardo Sciascia, scrittori di diverse epoche e sensibilità si sono cimentati con gli intricati risvolti morali, religiosi, giuridici e storico-sociali della vicenda (nota al grande pubblico soprattutto per un film interpretato da Gerard Depardieu, da cui è stato tratto un remake con Richard Gere). Tra le rielaborazioni letterarie più suggestive, il romanzo breve della scrittrice statunitense Janet Lewis, La moglie di Martin Guerre, appena pubblicato da Racconti Edizioni (pp. 120, euro 13,00). Uscito in America nel 1941 e tradotto solo ora in italiano con estrema cura da Eva Allione, il romanzo storico di Lewis (primo di una trilogia basata su famosi processi indiziari) rievoca la nota vicenda dalla prospettiva di Bertrande.

Attraverso una prosa delicata, limpida ed evocativa, Lewis trasporta il lettore nelle rigogliose campagne pirenaiche, nella casa dove si celebra il matrimonio tra Martin e Bertrande, entrambi undicenni. La narrazione accompagna l’evolversi dei sentimenti della ragazza, che col passare del tempo sviluppa «una passione profonda e gioiosa» nei confronti del marito, spezzata poi dal dolore dell’abbandono e tramutata in lacerante sospetto al presunto ritorno di Martin. Nel cuore di un romanzo che secondo Larry McMurtry è in grado di rivaleggiare con il Billy Budd di Melville, troviamo infatti anche la questione melvilliana della verità: all’anziana domestica che rimprovera Bertrande per i suoi dubbi – «Madame, io vorrei che vi lasciaste ingannare come un tempo. Eravamo tutti felici allora» –, la donna può solo rispondere: «La verità è la verità. Non potrei cambiarla nemmeno volendo».

Il dramma di Bertrande è il dramma della coscienza che obbliga a perseguire una verità dolorosa – verità che a sua volta esige una giustizia disumana: «Condanno un uomo a morte, un uomo che in più occasioni è stato buono con me, che è il padre del mio figlio più piccolo. Distruggo la felicità della mia famiglia. E perché? Per amore della verità, per liberarmi da un inganno che mi consumava e mi uccideva».
Niente è come sembra in questo piccolo gioiello narrativo, e nella brillante ricostruzione di Lewis anche la figura di Bertrande si carica di risvolti ambivalenti: da un lato è vittima di un odioso raggiro e complice involontaria di un’esecuzione, una donna dalla sensibilità moderna dotata di un’enorme forza d’animo che non teme di sfidare le autorità (maschili) per amore della verità; dall’altro resta una creatura sottomessa, oppressa dal senso del peccato e incapace di accettare una felicità che derivi dall’affermazione individuale piuttosto che dalla severa autorità patriarcale.

Alla fine, la legge (degli uomini) è tenuta a pronunciare una sentenza, ma la verità, così come il lettore, resterà in sospeso; poiché, come ha scritto Montaigne a proposito del caso di Martin Guerre, «c’è una specie d’ignoranza forte e magnanima che non è affatto da meno, per onore e per coraggio, della scienza». La moglie di Martin Guerre è dunque un inno alla verità ma è anche, per forza di cose, un elogio del dubbio.

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