Jan Palach, oltre l’icona
Storie L’anticomunismo a Praga non tira più. Difficile ormai abusare a destra del nome del giovane che si suicidò col fuoco contro la fine del socialismo dal volto umano nel gennaio 1969. Inoltre il Kscm è interlocutore dei socialdemocratici
Storie L’anticomunismo a Praga non tira più. Difficile ormai abusare a destra del nome del giovane che si suicidò col fuoco contro la fine del socialismo dal volto umano nel gennaio 1969. Inoltre il Kscm è interlocutore dei socialdemocratici
A fine gennaio si sono concluse le iniziative per il ricordo del 25simo anniversario della morte di Jan Palach, il giovane studente cecoslovacco sucidatosi come torcia umana in Piazza Venceslao nel gennaio 1969 per protesta contro le condizione di sudditanza in cui era ridotta la Cecoslovacchia dopo l’intervento degli eserciti del Patto di Varsavia. L’anniversario è stato tuttavia anche l’occasione per fare il punto sullo stato dell’anticomunismo in Repubblica Ceca.
Jan Palach ha avuto negli ultimi venticinque anni due vite parallele, che spesso hanno faticato a incontrarsi. La prima vita, quella biografica, parla di un giovane studente, sostenitore del socialismo dal volto umano che, con un gesto di assoluta forza e disperazione vuole scuotere le coscienze dei suoi concittadini. Le sue rivendicazioni vengono rivolte non alla dirigenza sovietica ma al governo cecoslovacco, formato ancora in parte e per poco dagli uomini della Primavera, chiamati dai sovietici a gestire la fase di transizione verso la normalizzazione e il lungo inverno cecoslovacco guidati poi da Gustàv Husàk. «Il gesto di Jan Palach non era soltanto un modo di protestare contro l’infondatezza morale della censura e contro i politici, che stavano tradendo una riforma dietro l’altro, per rimanere più a lungo al governo ma anche contro il pericolo, che ognuno di noi correva, di riconciliazione con la situazione di allora», ricorda Jan Kavan, uno dei leader del movimento studentesco praghese del biennio 1968-9.
La storia e la fiction
La seconda vita – anche grazie al fatto che l’esperienza della Primavera di Praga e del socialismo dal volto umano di Alexander Dubcek sono stati abbandonati dalla sinistra in tutta Europa, tranne che per l’esperienza de Il Manifesto – ha finito per prevalere sulla prima. Comincia vent’anni dopo, nella svolta democratica di «velluto» dell’89 nella Cecoslovacchia ancora unita, con le proteste contro il regime proprio nel ventesimo anniversario della morte dello studente cecoslovacco avvenuta il 16 gennaio 1969. Da quel momento inizia a prevalere lo Jan Palach-combattente contro il comunismo, il che ne fa una delle icone più popolari dell’anticomunismo ceco e poi dell’estrema destra europea. «La figura di Jan Palach ha una carica quasi religiosa e in qualche modo è diventato un martire della repressione della Primavera – spiega Ondrej Slacalek, politologo all’Università Carlo IV di Praga e una delle menti più brillanti del pensiero critico ceco – Grazie a ciò Palach non è soltanto un’importante figura dell’anticomunismo ma è diventato addirittura parte dell’identità nazionale».
Con lo iato tra le due vite si è dovuta confrontare anche la fiction televisiva, uscita quest’anno anche nelle sale cinematografiche, Bush Burning realizzata per la pay tv Hbo dalla regista polacca Agnieszka Holland. La Holland sceglie di raccontare la vita di Jan Palach dal punto di vista dell’avvocato della famiglia dello studente, che dovette far fronte alla calunnia di alcuni alti papaveri del regime normalizzatore. Così tutta la figura viene finalizzata a diventare un’icona dell’anticomunismo, togliendo la parola al diretto interessato. «I realizzatori cechi ci avevano avvertito che il film non sarebbe stato un documentario ma un lavoro artistico, a cui aveva dato assenso anche il fratello di Palach, e che si sarebbe quindi preso delle licenze artistiche per essere più toccante», sottolinea Miroslav Prokes, tra i leader degli studenti cechi nel 1968-69, che giudica il film della Holland «un mito di maniera semi-hollywoodiano».
Il 45simo anniversario dell’immolazione di Jan Palach e il 25simo anniversario dell’inizio della transizione dal regime guidato dal Partito comunista cecoslovacco di Husàk a una democrazia liberale cade in un momento particolare. A un quarto di secolo dal crollo del Muro di Berlino sembra incrinarsi sempre più l’egemonia dell’ideologia anticomunista nella società ceca. «Fino a qui il mito dell’anticomunismo ha funzionato, ma oggi manca qualcuno che lo possa interpretare», dice un poco sconsolato Petr Placak, una delle figure più rilevanti dell’anticomunismo intellettuale ceco. A confermare la sua lettura è una serie di interventi sui giornali e sulle riviste culturali, che non hanno smesso negli ultimi mesi di annunciare la fine dell’anticomunismo. «Certamente l’egemonia dell’anticomunismo si è incrinata, ma potrebbe essere presto per parlare della sua fine – stima Ondrej Slacalek – Questi articoli hanno infatti anche il fine di mobilitare tutte le forze disponibili».
La fine dell’esclusione
La crisi dell’anticomunismo in Repubblica Ceca non è rappresentata soltanto dall’incapacità di rappresentare Jan Palach come icona della destra. Si è verificata anche sul terreno politico-partitico grazie a un’altra rottura avvenuta in contemporanea. In primo luogo a partire dal 2008 il Partito socialdemocratico (Cssd) ha cominciato a non rispettare la conventio ad excludendum verso i tardocomunisti della Kscm – niente a che vedere con il Partito comunista che fu di Dubcek -, che tutt’ora prende tra il 10% e il 15% dei suffragi. L’apice del cambiamento alle ultime elezioni parlamentari di ottobre del 2013, quando i socialdemocratici hanno dichiarato di voler formare un governo con l’appoggio esterno della Kscm. «È un cambiamento notevole – commenta Slacalek – perché negli anni ’90 e all’inizio del secolo anche i socialdemocratici hanno dovuto essere anticomunisti per essere accettati tra le forze politiche democratiche e a livello internazionale».
Nella seconda metà del 2013 si è inoltre consumato un intenso scontro sul metodo da condurre nelle ricerche storiche sul periodo 1970-1989, finora affrontato quasi esclusivamente dal punto di visto del paradigma totalitario. Ma ormai tra gli storici cechi sta crescendo e prendendo la parola una schiera di personalità di questa disciplina, che contestano che la società d’allora possa essere studiata solo dal punto di vista della repressione, dando per scontato che il regime si reggesse in piedi esclusivamente con una polizia onnipresente. Da detonatore per uno scontro aperto è servito il cambio al vertice dell’Istituto per lo Studio dei Sistemi Totalitari (Ustr), che gestisce gli archivi dell’Stb, la vecchia polizia segreta, e dovrebbe studiare il funzionamento delle società totalitarie. Con l’arrivo di nuovi consiglieri vicini alla sinistra alla guida dell’Ustr, finora bastione della storiografia anticomunista, anche l’Istituto si dovrà aprire, con molte resistenze, a nuovi paradigmi interpretativi di quel periodo storico.
Infine nel 2013 è scesa per la prima volta sotto il 50% la quota delle persone che valutano la democrazia liberale del dopo-’89 migliore del regime guidato dal Partito comunista cecoslovacco. «Questi dati possono avere un’interpretazione multipla, e non credo che tutte quelle persone desiderino tornare ai vecchi tempi – osserva Ondrej Slacalek – Piuttosto dimostrano la grande delusione verso le mega-promesse non mantenute della rivoluzione del 1989».
Con la graduale scomparsa dell’anticomunismo e della sua presa sulla popolazione, la destra ceca è a corto di un elemento unificante ed egemonico. A rendere palese la spaccatura sono state le elezioni parlamentari di ottobre, da cui è uscito vincitore l’imprenditore e fresco padrone di importanti quotidiani, Andrej Babis. Babis, che ha fondato un proprio partito personale, è un uomo di destra e uno dei grandi oligarchi partorito dall’economia ceca dopo il 1989. Ma non ha quasi alcun tratto comune con le personalità della tradizionale destra ceca: ha fatto carriera prima dell’89, ha un approccio pragmatico alla politica, punta sull’immagine d’uomo d’impresa, che solo con il suo pragmatismo affaristico «dà lavoro» ai propri dipendenti e crea l’agognata prosperità. Degli approcci ideologici che hanno connotato fino al 2013 la destra ceca, come l’anticomunismo ma anche l’euro-scetticismo o la russofobia, non sa che farsene. Nella destra ceca dimora quindi un vuoto ideologico, che tuttavia potrebbe essere ben presto sostituito da uno nuovo schema d’idee che già emerge. Quello di gestire lo Stato come un’azienda.
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