Torna a Roma Jan Martens (ospite di RomaEuropa festival all’Auditorium Parco della musica), e ancora una volta inquieta dietro la sua apparente «calma» di gruppo. Il coreografo belga (ormai coprodotto da una sfilza di istituzioni europee che paiono un elenco telefonico dello spettacolo) ogni volta di più, e in questo caso al massimo, crea col suo ensemble uno spettacolo totale, che è totale teatro, e rappresentazione del mondo. Almeno del mondo che si vorrebbe, anche se intorno salgono dal ventre dell’umanità e della storia le peggiori esternazioni totalitarie, violente e «fasciste» nella loro intolleranza.

MA QUELLO che noi vediamo sul palcoscenico è una ipotesi fascinosa di reazione e «superiorità» attraverso l’armonia, pur tra umanità molto diverse (per età, razza, sesso) che incessantemente nel movimento trovano il modo di convivere, accettarsi, coordinarsi, come se quella pacifica e dinamica convivenza possa davvero proiettarsi come pratica comportamentale di massa.
Detta così può intimorire, se non preoccupare, ma invece bisogna accettare che quel «sogno» scenico possa essere un modello di vita collettiva. L’elemento più duro della serata è intanto il titolo: any attempt will end incrushed bodies and shattered bones, ovvero «ogni tentativo (ma si potrebbe tradurre anche attentato) finirà con corpi schiacciati e ossa frantumate», come minacciava il presidente cinese Xi Jinping durante le dure proteste di Hong Kong. Quella dichiarazione è un riferimento ideale contro cui lottare e reagire, amplificata e ben personificata nelle voci registrate e dalle scritte che a un tratto irromperanno in palcoscenico, volgari e minacciose, intolleranti e trucide, foriere di una società invivibile per la loro minacciosa e assoluta cecità.
Il piccolo miracolo cui si assiste è la grazia olimpica dei movimenti con cui l’ensemble vi reagisce. Un gruppo meraviglioso e rappresentativo: sono 17 i performer, dai 16 ai 67 anni, alcuni professionisti altri volontari, che instancabilmente senza sosta vivificano il palcoscenico. Muovendosi in un ordine apparentemente casuale, che continuamente si distribuisce e si ricompone in forme geometriche classiche, quotidiane, non aggressive. L’armonia appunto, che non è solo «grazia», ma consapevole e continua fatica, anche solo a reinventarsi ogni momento il cammino, mai da soli, ma in modo di coinvolgere «gli altri».

SOLI o a piccoli gruppi, a tratti quasi con l’aria che stiano partecipando a un provino. Ma lasciando volteggiare, nell’aria che fendono, il sospetto che siamo noi spettatori l’oggetto di quel «provino». La loro è una marcia silenziosa, in ogni possibile formazione e incastro, nella loro tenuta di lavoro, ognuna con un personale particolare. Su di loro e sul pubblico, circa a metà della serata, irrompono quelle volgarità e minacce reazionarie, se non dichiaratamente fasciste. Ma loro continuano il loro incessante movimento: una parete di tela grigia è il fondale, contro il quale essi stagliano le singole vitalità, rispetto alla nostra miopia massificante. Si stendono tutti a terra solo quando echeggia uno spiritual.
Perché la musica è un elemento importante nella regia dei loro movimenti. E sono suoni armonici ma non pacificati, da Max Roach a Lauryn Hill, al Concerto per clavicembalo e archi di Gorecki, e perfino Kae Tempest, che abbiamo conosciuto come poeta e drammaturgo alla Biennale teatro veneziana dell’anno scorso. Nel finale, tutti appaiono vestiti di rosso, per il tutù, le scarpette o le braghette indossate, sotto i suoni fattisi drammatici. La vitalità covava, e la speranza può accendersi in quell’armonia prestabilita.