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Jan Fabre, «Sono un servo della bellezza»

Jan Fabre, «Sono un servo della bellezza»Jan Fabre

Intervista Conversazione con l'artista in occasione della mostra allestita a Namur «Facing Time»: «Quello che mi accomuna a Rops non è il prodotto in sé, ma il modo di pensare l’arte. Ecco, credo che io e lui siamo accomunati da una forte energia»

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 marzo 2015

Quando si visita Facing Time si ha la curiosa sensazione di confondere le sue opere e quelle di Rops. Come sono state fatte le scelte di allestimento?

Le scelte sono della curatrice, io sono un semplice ospite, una sorta di visitatore. La mostra è stata concepita dalla de Vos e da Levy e credo che abbiano fatto un bellissimo lavoro.

Quando ha conosciuto per la prima volta l’arte di Rops? 

Quando avevo 18 anni mi piaceva molto giocare a black jack e l’unico Casino che esisteva in Belgio era proprio qui a Namur, quindi ci venivo spesso a giocare anche per 30 ore di seguito. È stato più o meno allora che ho scoperto il museo Rops e mi sono appassionato a questo incredibile, fantastico artista, che all’epoca nessuno conosceva, anche perché all’epoca tutti erano occupati con l’arte concettuale. Ho subito trovato Rops un artista dalla straordinaria immaginazione. Un artista fisico, sessuale nel vero senso del termine.

Sono molti i temi che vi accomunano, tra cui ovviamente l’eros e il tanathos, ma quale caratteristica l’affascina maggiormente in Rops? 

I curatori cerano di vedere negli artisti individui che si adattano più o meno al mercato, ma in realtà quello che ci accomuna non è tanto il prodotto in sé, le opere, ma un’idea metafisica, il modo di vedere le cose, di pensare all’arte. Per essere un artista devi sprigionare un’energia. Ecco, penso che io e Rops siamo accomunati dalla stessa energia.

Da cosa nasce l’esigenza di usare i media più diversi nel suo immaginario artistico? 

Sono un servitore della bellezza e mi inginocchio di fronte a quello che la bellezza mi chiede. Questo è un modo di essere libero, quindi uso differenti media solo e sempre al servizio della bellezza. La mia arte è la celebrazione dei conflitti, esattamente come nella società greca. Devo passare attraverso diverse esperienze per scoprire il senso della mia arte. Devo entrare fisicamente nella realtà per poter definire la mia arte.

Lei ha usato spesso le immagini in movimento e lo fa tuttora, girando film in 35mm, come il recente «Do we feel with our brain and think with our heart?»…

Si, ho iniziato a usare video agli inizi perché ero giovane e non potevo permettermi la pellicola, ma per me la qualità chimica della luce è tutto, così come è importante la registrazione del tempo. Nel caso del film girato con Rizzolatti, l’ho girato in pellicola e poi riversato in digitale, venendo poi cinque copie ad altrettanti musei

Parliamo di teatro, un’attività che lo assorbe molto esattamente come le arti visive. A Berlino il 26 e 27 giugno debutterà con uno spettacolo teatrale lungo 24 ore, Mount Olympus, che poterà in autunno anche a RomaEuropa: forse il suo lavoro più ambizioso dove la performance si sovrappone all’esistenza e richiede la totale partecipazione da parte dello spettatore che è chiamato a con-vivere fisicamente con gli attori. Da cosa nasce questa idea?

Lo spettacolo è una summa del teatro greco, una riscrittura di tutte le tragedie greche e di tutti gli elementi rituali connessi. Nell’antichità le rappresentazioni teatrali duravano tre giorni e tre notti e quindi la lunghezza di Mount Olympus ricalca quella struttura. In tutto il mio lavoro, anche quello artistico, il tempo è fondamentale. Così in questo contesto gli attori devono compiere ogni gesto in tempo reale, dormire, alzarsi, vivere, sentire il dolore e poi restituire tutto questo al pubblico.

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