James Salter,  margini inafferrabili
Mitch Epstein, «Martha’s Vineyard Ferry I, Massachusetts, 1983»
Alias Domenica

James Salter, margini inafferrabili

Scrittori statunitensi Alla lingua, per lui «quasi sacra», lo scrittore americano ha subordinato sia la struttura sia i soggetti delle sue trame: in «Crepuscolo», i già maturi racconti di gioventù, da Guanda

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 giugno 2022

Stando a quanto annota nell’Arte di narrare (Guanda 2016), venne un momento in cui James Salter si rassegnò alla certezza che sarebbe stato sempre insoddisfatto di quanto scriveva; ma era una forma di consapevolezza, la sua, ancora di là da venire all’epoca in cui lavorava ai primi racconti, che gli sembravano, comunque, «niente di speciale». Per quanto si sforzasse di migliorarli, infatti, «non avevano una struttura ed erano troppo sinceri». Tuttavia, a ennesima dimostrazione dell’evidenza per cui il talento si manifesta precocemente, i racconti della gioventù di Salter, ora tradotti da Katia Bagnoli per Guanda con il titolo Crepuscolo e altre storie (pp. 192, euro 16,00) sono già, inequivocabilmente, l’espressione di un grande e originale scrittore, che non sarebbe sfuggito alla considerazione della critica, a fronte del fatto che gli ingredienti delle sue trame non comportarono mai il coinvolgimento di un pubblico sufficiente a garantirgli il successo.

L’affermazione di James Salter fu infatti graduale, per quanto circondata dall’apprezzamento dei molti scrittori che incrociò nella vita – da Irvin Shaw, che incontrò a Parigi e gli assicurò sotto forma di entusiastici blurb un sostegno ventennale, a Saul Bellow, che lo convinse a comprare con lui una casetta e un appezzamento di terreno in Virginia (dove nessuno dei due abitò mai) e che lo incoraggiò fin dalle prime prove. Forte di questo sodalizio, Salter gli diede da leggere il romanzo che stava scrivendo a metà degli anni Settanta, Una perfetta felicità, costruito con «le pietre corrose della vita coniugale»: era una «partitura malinconica», dove aveva confinato ricordi della sua vita matrimoniale «fra mura onorate dal tempo». Saul Bellow vi lesse invece qualcosa di molto diverso, riassumibile negli effetti devastanti che comporterebbe la crudeltà sessuale delle donne.

Nessuna azione, o quasi
Al di là dello iato che comunemente separa l’intenzione dell’autore dalla ricezione di chi legge, Salter non solo deve avere prediletto da sempre l’inafferrabilità dei contorni, ma concentrato com’era sulla lingua, per lui «quasi sacra», le ha sistematicamente subordinato sia la struttura sia i soggetti delle sue trame, affidando entrambi a una suggestiva vaghezza.

Tornò, a distanza di molto tempo a riflettere sul suo primo racconto, «Am Strande von Tanger», che inaugura il volume appena pubblicato, dove sebbene il titolo nomini una spiaggia di Tangeri, tutto si svolge a Barcellona: protagonista un giovane uomo, Michael, che «crede in Malraux e in Max Weber» e della cui fisionomia Salter nomina solo il grande naso, una sorta di decorazione appiccicata alla sua faccia e al tempo stesso «il contrassegno del suo coinvolgimento nella vita». Malcolm si sta preparando a diventare un grande artista concettuale, la cui opera dovrebbe consistere nella creazione di una leggenda su se stesso. Accanto a lui, la moglie, Nico, e in arrivo l’amica di lei, Inge, incline alla collera e risentita con i ragazzi spagnoli che, a suo dire, non ci sanno fare con le donne. Al ritorno nell’appartamento affittato a Barcellona, la coppia trova il loro uccellino morto nella gabbia, e mentre la donna si mette a letto piangendo, il racconto si conclude con frasi prive di nessi con quanto fino ad allora nominato: brevi sequenze di parole, che inducono una sensazione di spaesamento, a simulare le associazioni di pensiero che affollano la mente della donna, mentre la giornata e i suoi dispiaceri scivolano nel sonno.

A distanza di decenni Salter tornò su questo racconto dall’«inutile titolo tedesco» e disse di apprezzarlo per la sua allusione (che nessun lettore sarebbe in grado di cogliere) al giro nichilista di Tangeri, cui avevano aderito Paul Bowles, Ginsberg, Burroughs, e soprattutto Francis Bacon, che di quei luoghi dipinse «commoventi paesaggi».

Quasi tutti i racconti di Salter, almeno in questa raccolta, non si affidano all’azione; e persino in quello titolato «Venti Minuti», dove un incidente piuttosto spettacolare potrebbe costituirne il fulcro, esso occupa poche righe per poi ritirarsi dalla scena, traversata piuttosto da flash mentali intervallati da qualche ritorno alla realtà, che la verosimiglianza del racconto sembra imporre alla scrittura. Jane Vare, una donna di famiglia irlandese, di casa nell’equitazione e nella cura dei levrieri, una mattina cade insieme al suo cavallo, che inciampa, vola in aria e le ripiomba addosso, fracassandole l’addome. Non più di tre righe sono dedicate all’incidente; per il resto, mentre Jane riversa a terra urla invocazioni di aiuto, scene di vita le si affacciano suo malgrado alla mente, come per un ultimo riepilogo. Le ore passano, il buio avanza, tutti i profili del paesaggio si dissolvono, e mentre la donna spera che qualcuno incroci il cavallo sellato e intuisca l’incidente, Salter ci consegna una prima prefigurazione del suo titolo, Crepuscolo: «nell’ultima luce vide i campi di cotone che scomparivano, il resto non c’era già più.»

Solo il condizionale controfattuale con il quale si dice che chi prestò aiuto alla donna avrebbe fatto bene a correre nella direzione opposta a quella imboccata ci fa intuire che Jane morirà. Meglio sarebbe stato raggiungere senz’altro, a tre miglia dal luogo dell’incidente, il veterinario del luogo: «era lui il miglior dottore della zona». Ma alla fin fine l’epilogo della vicenda è del tutto ininfluente nella economia del racconto, mentre l’inquietudine si sposta su un dettaglio, e la frase che sigilla la chiusa – «C’erano un centinaio di cani, compresi i suoi, sepolti nel fienile» – lascia intravedere una allusione inquietante al destino che Jane avrebbe forse trovato nella pur esperte mani del veterinario.

Dal volo alla scrittura
Un molto diverso senso di vaghezza pervade la storia di due giovani avvocati, in «American Express», che da New York – città divisa «fra chi saliva che chi scendeva, tra quelli che affollavano i ristoranti e quelli che rimanevano per strada, quelli che aspettavano e quelli che venivano a fatti passare…» – si sposta in Italia, dove le vicende dei due giovani in carriera vengono presentate come superfetazioni delle vite comuni, le vite elementari. Alla fin fine, tra ciò che accade e ciò che non accade non c’è molta differenza. Anche qui, le atout del racconto si giocano nelle frasi finali, quando l’inquadratura di Alan, il più riflessivo dei due avvocati, viene traversata da un giovanotto che salta sulla sua motocicletta, e si dirige a prendere il pane fresco per la colazione. «Una vita semplice la sua. L’aria era pulita, fredda. Lui faceva parte del grande immutabile ordine di coloro che vivono del proprio salario, abitano in un mondo buio, non sanno cosa succede ai piani alti.»

Salter invece ne ebbe qualche precoce assaggio: prima ancora di viaggiare nelle capitali europee, fece una qualche esperienza del lusso durante la guerra, quando dopo essersi arruolato nell’aeronautica, venne assegnato nell’estate del 1951 a Presque Isle, nel Maine, al 75° Fighter Squadron, ciò che gli diede l’opportunità di frequentare l’alta società, vedere case meravigliose convertite in ospedali o caserme, e assistere a profumate colazioni seguite da arresti improvvisi e frettolose esecuzioni.

Una volta deciso di cambiare vita per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, Salter si congedò dalla aeronautica tramite una lettera che con suo grande disappunto non suscitò alcuna reazione, e si mise a scrivere sceneggiature alternandole alla vendita di calendari e al lavoro in una libreria. La grande precisione necessaria alle sue manovre di volo si trasferì alla lingua, mentre tutto ciò che riguarda la struttura, i soggetti, e il contorno della situazioni narrate venne affidato a una programmatica indeterminatezza.

Uno tra i racconti più obbedienti al succedersi del prima e del poi, «Approdi conosciuti», fa scontrare l’ordinarietà dei nostri valori condivisi con un universo di depravazione. Truus, ragazza olandese robusta e sgraziata, viene ingaggiata dalla giovane divorziata Gloria, quale babysitter del figlio Christopher: non è stata una buona scelta. Truus conosce un uomo, Robbie Werner, che le dice di venire dall’Arabia Saudita, dove si appresta a fare ritorno. Di là le spedisce delle lettere, che un giorno Gloria scoprirà: redatte nello stile di un semi analfabeta, sono proposte di coinvolgimento nella recluta di giovani uomini e donne perché in stanze di albergo si concedano a sordidi commerci sessuali.

Alla indignazione, Gloria sommerà presto la delusione di venire lasciata per un’altra donna dal fidanzato che aveva chiamato in soccorso: «Quello sì che era stato un colpo, più di un colpo. Ma del resto niente, quasi niente, aveva più senso ormai.»

La predilezione di Salter per i rapporti al tramonto, per i margini in via di dissoluzione, per la luce del crepuscolo che sfalda la messa a fuoco della visione, trova una sorta di culmine nel racconto al tempo stesso più bello e più enigmatico della raccolta, titolato «Akhilo», che mette alla prova la magnifica scrittura di Salter facendola vibrare nella precisa trepidazione di ogni frase. Protagonista Eddie Fenn, carpentiere laureato in storia, che per quanto talentuoso «non si era mai avventurato al largo»: a se stesso aveva chiesto forse troppo poco, e ora il medico dice di lui che è un alcolizzato. Eddie si muove con circospezione nella notte, alla ricerca della fonte del rumore che lo ha svegliato: le figlie dormono in fondo al corridoio, «niente e nessuno è al sicuro per più di un’ora nella vita». L’inciso basta a Salter per dare una sferzata di instabilità all’intero racconto.

Via via che Eddie avanza, il rumore sembra ritrarsi «come mosso da una consapevolezza». In pochi minuti, alterna alla concentrazione su quella eco inintellegibile frammenti di bilancio della sua vita, che non era andata come previsto: «il suo fallimento lo leggeva come qualcosa di romantico». Più di altre, questa semplice frase serve a Salter per dirci che siamo di fronte a un uomo semplice, forse disturbato, certamente insoddisfatto e forse orgogliosamente dalla parte della sua mancanza di coraggio. Eddie continua a seguire la nota che risale dalla notte e sembra ipnotizzarlo: via via essa si fa più chiara, lascia distinguere parole «senza significato, senza precedenti, che appartenevano comunque a una lingua proveniente da un ordine delle cose più vasto e più impenetrabile del nostro.»

D’ora in avanti, tutta la bravura di Salter starà nel descrivere una sorta di mutuo duello tra Eddie, che cerca di trattenere e di proteggere in sé quelle parole inafferrabili, e la voce della moglie che lo chiama preoccupata, lo incalza, vuole sapere. Al suono della voce di lei, l’eco si ritrae dalla mente di Eddie, che cerca di afferrarne alla cieca gli ultimi suoni, come fossero segnali che si stagliano dall’umano rumore di fondo e parlano al programma della vita. Una volta di più, il nulla che accade satura lo spazio del racconto: non c’è niente, poi qualcosa, poi di nuovo niente.

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