Cultura

James Montague, l’inedita geopolitica del popolo delle curve

James Montague, l’inedita geopolitica del popolo delle curveUn’immagine di ultras in curva a Belgrado, foto Ap

L’intervista Parla l’autore di «Fra gli ultras», pubblicato da 66thand2nd. Un potente reportage narrativo che sarà presentato al festival Book Pride che si apre giovedì a Genova. «Un esempio di globalizzazione delle sottoculture. Simile a come si è diffuso il punk: nichilista, anti-autorità, un veicolo di espressione per una gioventù irrequieta»

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 1 ottobre 2024

Da Roma all’Indonesia passando per l’America latina, gli Stati uniti, i Balcani e l’intera Europa. Il viaggio compiuto dal giornalista e scrittore britannico James Montague, e raccontato nel suo Fra gli ultras (traduzione di Leonardo Taiuti, 66thand2nd, pp. 426, euro 21), ricostruisce un’ideale mappa del tifo estremo, descrivendo linguaggi, stili, miti e «codici narrativi» attraverso decine e decine di incontri e interviste in quello che assomiglia a un autentico corpo a corpo con il fenomeno e i suoi protagonisti. Montague – che sarà tra protagonisti del festival Book Pride, che si apre giovedì al Palazzo Ducale di Genova (l’appuntamento con lui è per il 6 ottobre alle 18.30 con Matteo Codignola), dà voce a quanti vivono intorno al calcio gran parte del proprio tempo. Non hooligans, sia chiaro, ma tifosi che si organizzano in gruppi autonomi, autogestendo il proprio rapporto con i club e i poteri del calcio e che, ovviamente, riflettono nelle loro storie, segnate dalla violenza come, in questa fase in particolare, dall’estremismo politico di destra, i contesti e le vicende delle realtà nelle quali operano.

James Montague

La prima cosa che emerge dal libro è che gli ultras rappresentano un fenomeno che ci parla della globalizzazione delle sottoculture giovanili. Attraverso quali passi si è giunti a questo?
Scoprirlo è stata una delle cose più sorprendenti di questa ricerca. Mi sono accorto che il libro non stava diventando solo una sorta di storia di una sottocultura, ma anche una riflessione sulla velocità dei processi di globalizzazione man mano che la tecnologia si sviluppava e la comunicazione diventava più rapida. Sebbene la cultura ultrà sia per molti versi un fenomeno principalmente italiano, in Sud America ha iniziato a svilupparsi qualcosa di simile già all’inizio del XX secolo: in Uruguay, poi in Argentina e Brasile. Poi è «tornato» in Europa con la nazionale jugoslava dopo che i suoi giocatori hanno sentito l’incredibile frastuono del Maracanà quando il Brasile ha giocato i Mondiali del 1950 (organizzato dalla Torcida del Flamengo). Quindi, anche grazie ai media e al turismo di massa, quella che appariva come una sottocultura molto attraente per i giovani ha cominciato a diffondersi senza confini. Con la Rete, tifo e coreografie possono essere condivisi istantaneamente, così ora c’è una scena ultrà, ad esempio in Marocco o in Indonesia, che utilizza un’estetica italiana e perfino con parole e frasi in italiano. Nell’insieme direi che ci sono molte somiglianze con il modo in cui il punk è diventato una sottocultura giovanile globale; nichilista in un certo senso, anti-autorità, un veicolo per una gioventù irrequieta.

Il dibattito tra gli esperti, e gli stessi tifosi è aperto, eppure anche il suo libro lo indica come uno dei problemi principali: a livello internazionale si può parlare di ultras senza tirare in ballo in un modo o nell’altro le idee o i gruppi dell’estrema destra?
Sono sempre stato attratto dalla politica «della curva». Non credo molto alla frase «ultrà no politica». Lo stadio è uno spazio della società civile in cui un gruppo esprime le proprie opinioni, speranze e lamentele. In realtà non c’è nulla di intrinsecamente legato all’estrema destra nella politica della curva, ma quel luogo riflette ciò che accade nello spazio politico complessivo. E oggi quello che appare come il movimento anti-establishment dominante è il populismo di estrema destra. Il cambiamento politico che hanno conosciuto gli ultras della Roma credo ne sia un ottimo esempio. La Curva Sud aveva gruppi eterogenei, destra e sinistra. Ma negli anni ’70 per i giovani le tendenze anti-establishment erano incarnate dal Pci e dall’estrema sinistra, quando negli anni ’90 le cose hanno iniziato a cambiare, anche gli ultras si sono adeguati. Oggi la destra radicale non ha comunque il monopolio delle curve. Ci sono ancora sacche di ultras di sinistra in Italia. E in Germania c’è una pluralità di ultras progressisti. Non si deve poi dimenticare che, sia a sinistra che a destra, questi gruppi tendono a condividere una visione sul potere e su chi lo esercita. Per questo in inglese ho chiamato il libro 1312: significa che «tutti i poliziotti sono bastardi». Ho visto questo graffito in ogni stadio del mondo. I gruppi ultrà sono uniti da una sfiducia nell’autorità al di là di dove si situano nello spettro politico.

Nel libro c’è un convitato di pietra; le tracce del fenomeno presenti nel Regno Unito. Debellato l’hooliganismo, almeno nella Premier League, grazie a una repressione capillare (e forse ai limiti del «panopticon»), nel Paese che serve da modello per i tifosi non c’è traccia di ultras?
Non c’è un capitolo dedicato all’Inghilterra perché non c’è mai stata una vera cultura ultrà, ma i riferimenti al Paese sono ovunque perché abbiamo avuto un forte fenomeno hooligan e una cultura casual ancora molto influente. Ma la diffusione dell’hooliganismo, e la sua eliminazione, rappresentano un avvertimento. La Germania aveva lo stesso problema, ma la cultura ultrà ha preso il sopravvento all’inizio del XXI secolo, in parte perché ha avuto lo spazio per farlo. Con poche eccezioni, i club calcistici erano realtà associative ed era possibile per i tifosi organizzarsi e rivendicare spazio allo stadio. La loro voce era importante e ascoltata. L’assoluto controllo aziendalistico e poliziesco del calcio inglese ha reso impossibile lo sviluppo di tale cultura. I tifosi sono soltanto dei «clienti». C’è qualche esempio, al Crystal Palace e al Celtic in Scozia, dove sono stati fatti dei tentativi, ma le autorità hanno messo al bando ogni gruppo che considerano problematico. Ciò è molto più difficile da fare in Germania e in Italia, dove si è combattuto per quello spazio. In Inghilterra, negli Usa e, cosa interessante, in Arabia Saudita (dove sono stato per lavorare al mio prossimo libro) si assiste invece ad una sorta di versione aziendale della cultura ultrà: grande, ma inoffensivo, tifo sulle tribune. I «padroni» del calcio amano l’estetica ultrà, ma odiano la natura incontrollabile delle persone che lo rendono ciò che è.

Lei racconta dell’incontro di qualche anno fa con Fabrizio Piscitelli, già leader degli Irriducibili della Lazio, poi ucciso da un killer in un regolamento di conti nell’ambito della malavita. Proprio la traiettoria di Diabolik, passato da capo di una curva a boss del crimine, sembra illustrare una delle possibili derive del fenomeno, cosa ne pensa?
Non sono sicuro che la vita e la morte di Fabrizio rappresentino una tendenza più ampia. Era un individuo unico. Intelligente, carismatico, pericoloso, e che ha costruito un impero attorno alla Curva Nord. In un certo senso è stato il capo-tifoso di maggior successo. E il più famigerato. Spesso mi chiedono dei collegamenti tra ultras e criminalità, soprattutto nella Nord, ed è chiaramente un problema. Se gli ultras vogliono vivere in opposizione alle norme e al controllo sociale, alcuni di loro possono cadere nell’orbita della criminalità. Interessante è anche la sua matrice politica: era un fascista dichiarato, abbiamo fatto l’intervista accanto ad un ritratto di Mussolini! Era considerato un estremista, ma oggi l’Italia ha il governo più a destra dalla Seconda guerra mondiale, e il populismo di destra si sta diffondendo. Sembra che il mondo si plasmi più ad immagine di Piscitelli, piuttosto che allontanarsene.

Alla fine del libro racconta l’incontro con gli ultras del Los Angeles Fe, che fa parte della Major League, riuniti nel collettivo 3252 che mette insieme nove diversi gruppi di quella metropoli-mondo. Di cosa si tratta?
Sono stato a Los Angeles qualche settimana fa e ho incontrato di nuovo i membri del 3252. Politicamente la cultura ultrà americana è progressista: è raro trovare tifosi pro-Lgbtq in Europa, mentre quando ero con loro sventolavano una grande bandiera arcobaleno. E anche se tra gli ultras europei c’è scetticismo, per un sottile antiamericanismo e perché si ritiene che negli Usa il calcio sia legato ad una cultura aziendale, a Los Angeles ti rendi conto che si tratta di una città molto attenta al calcio e influenzata dalle curve del Centro e del Sud America. Oppure dell’Iran e della Spagna. Qualcosa di genuino e dalle radici profonde.

«Fra gli ultras» si avvicina alle forme di giornalismo narrativo che ci conducono «dentro» i fenomeni: in questo senso, il modo di raccontare se stessi da parte degli ultras ha delle caratteristiche generali?
Ero consapevole che la mia presenza avrebbe potuto cambiare il modo in cui le persone si comportavano. Soprattutto se, da giornalista, mi consideravano una sorta di minaccia. Ma gli ultras fiutano facilmente le stronzate e io mi sono sempre sentito più a mio agio dietro la porta che in tribuna stampa. Sono sempre stato onesto riguardo ai miei obiettivi e credo che la maggior parte delle persone sia stata sincere con me.

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