«L’intelligenza artificiale è estremamente limitata ma perché l’idea che noi abbiamo di intelligenza lo è». Muovendosi nello spazio intermedio e contaminato dell’arte visiva e della scrittura, tra politica e attivismo, James Bridle – di recente ospite in Italia al Festivaletteratura di Mantova – propone una lettura del presente capace di allargare lo sguardo, la visione rispetto a uno spettro interpretativo talvolta claustrofobico e unidirezionale.
Modi di essere è il suo ultimo volume (Rizzoli, pp. 430, euro 24, traduzione di Roberta Zuppet) e già nel sottotitolo si dipana l’ampiezza della sua ricerca: «animali, piante e computer: al di là della intelligenza umana».
L’interesse di Bridle verso la stoffa dei processi materiali arriva tuttavia da lontano. Studi di informatica e scienze cognitive, un libro precedente (Nuova era oscura, Nero Editions, 2019), e ancora interventi sul Guardian, The Atlantic, The Observer ma anche su Jacobin sui diversi temi che, non solo intorno alla tecnologia, lo interrogano: informazione e media, cittadinanza e governance, sorveglianza e altri. Poco più che quarantenne, una esistenza vissuta tra Londra e la Grecia, secondo Bridle «quando pensiamo all’intelligenza ci riferiamo a ciò che noi umani facciamo, è una visione molto ristretta e limitata di questo concetto».

Nel suo libro «Modi di essere», il modo asfittico che abbiamo di considerare l’intelligenza risente anche di una certa grossolanità tutta umana.
Tutte le tipologie di intelligenza che esistono sono in realtà molto più interessanti della semplice concezione che possediamo. Tenerle in considerazione e riconoscerle ci permette anche di capire meglio la relazione che come esseri umani abbiamo con il resto del mondo. Se riusciamo a superare l’idea che l’intelligenza sia legata solo all’umano riusciamo a capire molto meglio la ragione per cui siamo separati dal mondo che ci circonda, lo stiamo distruggendo. Dobbiamo uscire dalla credenza che l’intelligenza sia solo nel cervello umano e vederla più in relazione e in rapporto con gli altri e l’altro.

Il suo saggio si avvia da una decostruzione del concetto di antropocentrismo per puntare alla coscienza di una interdipendenza. Negli ultimi anni ci sono stati molti studi tra biologia e sistemi non occidentali, tra filosofie e pratiche politiche, che sostengono ciò che lei scrive. Eppure l’equivoco, niente affatto innocente, sembrerebbe considerare ancora l’intelligenza umana come esclusiva. Siamo invece all’interno di organismi ed ecosistemi di cui ignoriamo la complessità?
Ci sono due errori: uno è che pensiamo che l’intelligenza umana sia l’unica esistente e riconosciuta, superiore. Il secondo errore è che immaginiamo sia separata dal circostante. Se osservassimo le altre forme di intelligenza non umane ci accorgeremmo invece che non solo non esiste una gerarchia, una divisione ma che sono capaci di dialogare al loro interno in una interconnessione. L’esito cui si è giunti ha una ricaduta anche politica, ovvero che comprendiamo come non si possa cambiare il mondo se prima di tutto non cambiamo noi stessi al nostro interno come parzialità di questo stesso mondo.

Attraverso le riflessioni sui cefalopodi di Peter Godfrey-Smith nel suo «Altre menti» (Adelphi), quelle di Eduardo Kohn nel saggio «Come pensano le foreste» (Nottetempo) oppure quelle di Anna Tsing in «Il fungo alla fine del mondo» (Keller), che cosa significherebbe pensare intelligenze artificiali apprendendo dalle profondità marine, da quelle selvatiche o micologiche?
Questa intelligenza artificiale che stiamo creando nasce dalla centralità della mente umana. Il modo in cui sono strutturate le foreste o il modo in cui si distribuisce l’intelligenza nei polpi potrebbe influenzare anche semplicemente il modo in cui organizziamo un computer che parte da un cervello per poi decentralizzare. Rifletto sul fatto che l’attributo «artificiale» è un nostro prodotto, frutto di un processo; abbiamo creato questa etichetta per dire cosa esiste e cosa no. Di fatto tutto invece esiste e la intelligenza artificiale non è una forma degradata o sminuita di quella umana.

A proposito delle piattaforme di intelligenza artificiale e di apprendimento automatico costruite da colossi come Google e altri, lei ragiona sulla finalità che attribuiamo ai nostri strumenti. Il punto politico che perverte ogni assetto è infatti il profitto, lo sfruttamento ma anche l’estrazione che certo non concorrono al benessere del pianeta né a quello di chi lo abita.
Il potere che hanno costruito aziende come queste nasce dal controllo che noi stessi abbiamo dato loro per mettere in atto un nuovo ordine del mondo. Hanno delle credenze bizzarre, per esempio vedono il mondo come un elaboratore binario. Possiamo togliere il potere? Credo di sì, o utilizzando strumenti diversi da quelli che propongono oppure usando meglio quegli stessi strumenti. Intanto capendoli, il malinteso è infatti che siano pensati per una cerchia ristretta e non è così. Se ancora non succede è perché è stato innalzato un muro di protezione. Google e altri sono esempi citabili ma ciò a cui mi riferisco è un sistema più ampio e occidentale che ci tiene in trappola. Il mio obiettivo non è smantellare la tecnologia o queste forme di sapere ma cercare di osservare in modo diverso, capire per esempio che ogni sistema educativo o in cui vengono diffuse le informazioni è uno dei tanti esistenti.

Nel suo lavoro artistico porta avanti le istanze teoriche e politiche di cui ha appena discusso. Tra le ultime installazioni, in cui la tecnologia sostituisce le scelte sociali, c’è «The distractor».
È un’opera anomala che parla dello sviluppo di un programma televisivo, «Sesame Street», sviluppato negli anni Sessanta negli Stati Uniti dove ai bambini venivano fatti guardare episodi di determinati cartoni animati perché rimanessero letteralmente attaccati allo schermo e ricevessero dunque determinati «insegnamenti» distraendoli da altro. Se l’obiettivo era allora di migliorare l’apprendimento e l’educazione infantile in un momento storico in cui si partiva dall’assunto che ci fosse più facilità di accesso ai televisori che ai sistemi educativi, c’era però l’altro aspetto ovvero che abbiamo deciso in quell’istante di educare i bambini attraverso gli schermi. L’idea di poter misurare la loro concentrazione è una tecnica di cui il capitalismo si serve ancora adesso, cercando di attirare la nostra attenzione e monetizzarla. Credo che avremmo potuto forse costruire più scuole.

Seppure siano questioni connesse alla nostra quotidianità, mi sono un po’ stancato, come altri e altre artiste, di fare qualcosa che «rappresenti» qualcosa d’altro. Voglio invece agire con maggiore coinvolgimento come è capitato in Grecia all’inizio di quest’anno: con il mio compagno abbiamo riunito una quindicina di studenti di architettura e abbiamo costruito insieme a loro una struttura, loro ci hanno insegnato ciò che sapevano e noi abbiamo ricambiato. C’è stato uno scambio, arricchendo questa struttura con pannelli solari, un impianto di purificazione dell’acqua. Abbiamo lasciato qualcosa di concreto al territorio. Anche questo è riconoscere la relazione che intercorre tra diverse forme dell’intelligenza, che siano utili non solo dentro la sala di un museo.

* Grazie a Jessica Zucca per la collaborazione.