Visioni

James Brandon Lewis, indagine musicale dalla mente al cuore

James Brandon Lewis, indagine musicale dalla mente al cuoreJames Brandon Lewis Trio in una performance dal vivo a Rotterdam, 2017 – foto Getty Images

Note sparse «Transfiguration» è il nuovo capitolo discografico del saxtenorista americano, un cambio di prospettiva

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 28 febbraio 2024

Transfiguration è il titolo dell’album (Intakt), Transfiguration è il brano d’apertura, Transfiguration è il brano che James Brandon Lewis considera plasmato sul principio delle «dodici note», che sarebbe poi il principio della dodecafonia o del serialismo. Ovvio che l’attenzione si concentri su questo brano per capire se davvero l’adozione di un tale sistema compositivo, che è anche una filosofia musicale se vogliamo, abbia determinato un cambio di prospettiva nell’itinerario artistico di questo intrepido saxtenorista americano. Di cui si è apprezzato finora il modo passionale, spregiudicato e devoto assieme con cui ha riproposto il vocabolario coltraniano. A volte – come in uno straordinario concerto al festival di Sant’Anna Arresi nel 2018 – con una aperta e propositiva accentuazione dei toni «romantici» (in blues e in free, sia chiaro) di quello che era stato il messaggio più diffuso nel jazz avanzato degli anni ’60 del secolo scorso.

Un progetto in quartetto con: Aruán Ortiz, Brad Jones e Chad Taylor

UNA RECENTE uscita discografica ce lo ha mostrato, per la verità, molto impegnato a riprendere e ricostruire con i forti accenti suoi certe tinte e certi procedimenti dei collettivi diretti da Albert Ayler. È successo nell’album For Mahalia, with Love (Taoforms), dove Lewis propone un omaggio alla tradizione del «canto nero», dello spiritual, del gospel e del blues, ma in sostanza si abbandona alle suggestioni di una tradizione che già Ayler aveva reinventato con il suo ricorso frequente al retaggio soul e folk. Una parentesi questa di James Brandon Lewis che però ci avverte, tra le righe e paradossalmente, di una vocazione oggi venuta in chiara luce con Transfiguration: alla scelta di un campo musicale più «mentale», attento a indagare un raccordo tra spunti di scrittura e fraseggio delle parti improvvisate e a impiegare in generale un discorso più «astratto». Torniamo al brano Transfiguration. Non ci si trova l’aura dodecafonica – perché l’avventura della dodecafonia ha avuto ben ravvisabile anche un’aura oltre a una tecnica -, ma ci si trova un desiderio di tracciare uno schema tematico estraneo al principio della tonalità. Desiderio che a dire il vero si sente ancor più forte e più intenso nel brano successivo, Trinity of Creative Self. Insomma, abbiamo un James Brandon Lewis in transizione, secondo lui in «trasfigurazione».

MAGNIFICAMENTE assecondato dai consueti partner del suo quartetto: Aruán Ortiz al pianoforte, Brad Jones al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria (superlativo come sempre ma meno conciso e più fastoso). Ortiz nel brano Black Apollo si produce in un assolo che davvero si può definire memorabile. Elabora un sapere «da Tristano a Cecil Taylor» con la vivacità che lo contraddistingue e senza i ricordi (poco più che nominalistici, in realtà) del patrimonio tradizionale della nativa Cuba come si intrasentivano nel recente album Serranías (Intakt).

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