Jamaica Kincaid, se il mito illumina l’ingiustizia
L'intervista Parla l’autrice di «Biografia di un vestito» (Adelphi) che rilegge attraverso il transito di merci anche lo schiavismo. La scrittrice di Antigua, cittadina statunitense, sarà domani alla Biblioteca Sala Borsa di Bologna. «Come le cose che riemergono nella dispensa, la scrittura è cercare nei ricordi: del resto né la vita né la letteratura sono mai coerenti»
L'intervista Parla l’autrice di «Biografia di un vestito» (Adelphi) che rilegge attraverso il transito di merci anche lo schiavismo. La scrittrice di Antigua, cittadina statunitense, sarà domani alla Biblioteca Sala Borsa di Bologna. «Come le cose che riemergono nella dispensa, la scrittura è cercare nei ricordi: del resto né la vita né la letteratura sono mai coerenti»
A dieci anni di distanza Jamaica Kincaid torna in Italia, a Bologna, come ospite del Festival «Archivio Aperto». Il Festival, codiretto da Giulia Simi e Sergio Fant, l’anno scorso aveva visto ospite la premio Nobel Annie Ernaux e anche quest’anno nella sezione «Poetry, diaries, novels» si propone di valorizzare le opere letterarie in cui la parola si fa indagine e in cui le storie private si intrecciano alla storia collettiva. Proprio in ordine a questo intreccio nascono gli scritti di Jamaica Kincaid, autrice antiguo-barbudana con cittadinanza statunitense, figura di spicco della letteratura postcoloniale e tra le voci più dissonanti del panorama letterario contemporaneo.
Fin dai primi anni Ottanta le sue opere si posizionano in quello spazio teso (scivoloso e denso di fraintendimenti) che è l’autofiction, in cui la scrittrice, le sue voci narranti e le sue personagge coesistono – scandagliando la memoria dall’infanzia fino ai tempi presenti e mostrando senza indugio i danni e le ferite provocate dal governo coloniale britannico. Poetica, la prosa di Jamaica Kincaid porta il sentore di un’atmosfera in cui il mito illumina, senza indugio o moderato riserbo, le ingiustizie di un presente storico che si rivela e resta impresso – a forma di tracce indelebili – sulla pelle.
Biografia di un vestito è il racconto che fa parte del libro omonimo, pubblicato quest’anno da Adelphi nell’eccellente traduzione di Franca Cavagnoli e costituirà il punto di partenza dell’incontro con Jamaica Kincaid, che sarà introdotto dalla scrittrice Nadia Terranova. In una delle pagine iniziali del testo troviamo la riproduzione di una fotografia in bianco e nero di una bambina, che posa su un piedistallo in uno studio fotografico di Antigua: la didascalia dice trattarsi di Jamaica Kincaid, all’età di due anni. Nelle parole che la accompagnano ritroviamo tutta la fascinazione nei confronti di quell’immagine: la propria, quella della fotografia e quella riflessa, nello specchio e nei nostro occhi.
In «Biografia di un vestito» leggiamo che la madre della protagonista, per prepararla alla fotografia, la porta a fare i fori nelle orecchie e la bambina fa la prima esperienza del dolore. In questa esperienza in quanto osservatrice lei scrive di reperire «il mio primo e unico vero atto di autoinvenzione».
Il focus della sua domanda capta l’essenziale della mia scrittura, la questione dell’autoinvenzione ma anche il ruolo della memoria e di come me ne servo per scrivere delle storie. Certo è che a due anni non potevo sapere tutto questo, tuttavia in quella bambina risiede il ricordo di quello che è stato. Questo è per me la scrittura: cercare nei ricordi. Allo stesso modo di quando si va in dispensa, le cose riemergono inaspettate, proprio le cose dimenticate che poi ci ricordiamo di aver lasciato lì e che ritroviamo mentre facciamo altro. La mia scrittura si è costruita e si costruire sulla E e sul MA: nella E, con cui comincio anche il mio romanzo Mr. Potter c’è tutto quello che c’era prima, si tratta di un esordio che prevede il «prima» del ricordo; e poi c’è il MA, in cui risiede invece la contraddizione e la contraddittorietà della nostra vita, della nostra memoria e anche quella della scrittura. La letteratura, quella vera, non è coerente: non lo sono né la Bibbia né L’Iliade. Certo ci piacerebbe che tutto tornasse, perché è più rassicurante, eppure né la vita né la letteratura sono coerenti.
La bambina della fotografia indossa un abitino chiaro, che scopriamo essere di popeline giallo di cui è specificata la provenienza: da Avignone all’Inghilterra tramite gli Ugonotti e infine ad Antigua. La voce narrante si addentra nella storia del tessuto, che simboleggia non solo il transito delle merci ma anche la tratta transatlantica degli schiavi. Come non restare indifferenti a tutto questo?
La sua domanda mi porta a realizzare quanto mi rattristi notare che questa questione, che dovrebbe interessare per primo il pubblico statunitense, sia trascurata. Nella storia del commercio, anche quello di abiti, dimora una parte importante della nostra storia, segnatamente quella delle relazioni tra i popoli del cosiddetto Nuovo Mondo e gli europei. Pensiamo a Francis Drake, grazie al quale furono poste le basi per il dominio dell’Inghilterra sui mari. Si trattava di un pirata, di un corsaro, autorizzato ad attaccare navi e coste e che partecipò attivamente anche al commercio degli schiavi. Ebbene, questo pirata fu insignito del titolo di cavaliere dalla regina Elisabetta I. Anche questa è la storia, quella che fa venire la pelle d’oca e ci marca la pelle in maniera permanente. Non si dovrebbe restare indifferenti, perché questi segni sono e restano sulla nostra pelle – come le tracce indelebili di ciò che è stato.
Prima di diventare una scrittrice lei ha studiato fotografia alla «New School for Social Research» a New York. Cosa ha rappresentato per lei la fotografia e che relazione hanno le immagini fotografiche con la sua scrittura?
Pur non essendone completamente consapevole credo che la fotografia abbia avuto una grande influenza sulla mia scrittura. La fotografia ha a che fare con la memoria, che è anche il titolo del vostro festival, «The Future is Memory», e sì la memoria è un continuo atto di creazione. Io sono arrivata alla scrittura passando dalla fotografia ma anche grazie al cinema. Per la mia poetica è stata fondante la visione di La Jetée di Chris Marker e leggere Instantanés dello scrittore francese Alain Robbe-Grillet, che fu anche regista e sceneggiatore. Nel diventare una scrittrice, una grande influenza hanno avuto poi le mie prime letture: a sette anni mia madre mi regalò l’Oxford, dizionario di riferimento per l’inglese; presto cominciai a frequentare la biblioteca pubblica ad Antigua e all’età di undici anni passai dal reparto dei libri per bambini a quello dei libri per adulti. Come si evince nel mio Lucy, importante fu anche la lettura di Jane Eyre.
L’inglese della sua scrittura è maneggiato per rendere la sua prosa incantatoria e cantilenante. Si percepisce un linguaggio che affonda le sue radici nell’oralità, il benna. È proprio quest’oralità che genera un racconto in cui la voce narrante mima il rovello della mente. Flusso di coscienza o ritornello musicale?
Ci sono davvero entrambe le componenti, il flusso di coscienza e il ritornello musicale. Legati insieme. Nonostante io abbia provato e provi ancora a maneggiare la lingua ci tengo a dire che non ho avuto la disciplina tale per diventare una poeta. Credo che la cattiva poesia sia veramente una pessima cosa, allora nel dubbio ho preferito la prosa. La poesia per me resta qualcosa di sacro. Forse tra i racconti di In fondo al fiume c’è della poesia, ma non ne sono così sicura…
«Un posto piccolo» è un libro potentissimo, costruito come un saggio, e sovverte il luogo comune di Antigua come paradiso per i turisti. Insieme all’industria turistica sotto accusa ci sono anche gli effetti dell’eredità coloniale britannica. E anche il governo di Antigua, la cui corruzione è cresciuta dopo l’indipendenza completa dell’isola avvenuta nel 1981. Rispetto alla fine degli anni Ottanta, come sono cambiate le cose?
Dopo l’elezione di Donald Trump le cose sono andate peggiorando sempre più. Lo dico perché bisogna sapere che l’influenza statunitense ad Antigua è molto forte. Nonostante dopo l’indipendenza ci saremmo aspettati uno sforzo volto a non ripetere gli stessi meccanismi dello sfruttamento coloniale, ciò non è successo. Ad Antigua ci sono troppe contraddizioni: l’opulenza smisurata del potere a fronte del pessimo stato degli ospedali ad esempio, e della maggioranza delle infrastrutture. E questo sarebbe il paradiso? Di che paradiso parliamo? Un paradiso che si porta con sé tutto quell’immaginario viziato che resiste fin dai tempi di Cristoforo Colombo, cioè un paradiso – spazio reale e simbolico – che da inviolato può essere violato e violentato.
La XVI edizione di «Archivio aperto»
Domani a Bologna (17:30, Biblioteca Salaborsa) Jamaica Kincaid sarà ospite nell’ambito della XVI edizione (in corso dal 25) del festival «Archivio Aperto», nella sezione «Poetry, Diaries, Novels» (a cura di Giulia Simi e Francesca Maffioli) – che è realizzata con il sostegno del Settore Biblioteche e Welfare culturale del Comune di Bologna nell’ambito del Patto per la lettura di Bologna e il contributo di Fondazione MAST, Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia e Coop Alleanza 3.0, in collaborazione con Adelphi Edizioni e Librerie Coop. Introduce Nadia Terranova. Modera e intervista Francesca Maffioli.
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