Jamaica Kincaid, disastro mitologico nel Vermont
«VEDI ADESSO ALLORA», DA ADELPHI Fra irrisione e noir, la crisi di un matrimonio socialmente asimmetrico. Il ritorno al romanzo di Jamaica Kincaid, sotto il segno di un mito «pericoloso»: le nozze di Cadmo e Armonia
«VEDI ADESSO ALLORA», DA ADELPHI Fra irrisione e noir, la crisi di un matrimonio socialmente asimmetrico. Il ritorno al romanzo di Jamaica Kincaid, sotto il segno di un mito «pericoloso»: le nozze di Cadmo e Armonia
Che sia stato un libro magico come Le nozze di Cadmo e Armonia a dare un’inedita velatura mitologica all’ultimo romanzo di Jamaica Kincaid? Cadmo, l’inventore dell’alfabeto e fondatore di Tebe, e Armonia, figlia di Afrodite, protagonisti di un matrimonio archetipico, ossequiato dal consenso di tutti gli dei dell’Olimpo, sembrano tacitamente sorvegliare una storia matrimoniale americana dei nostri tempi. I due sposi antichi vissero felici ma la loro unione – che «aggiogava l’opposto e il selvaggio» (Calasso) – produsse anche terribili lacerazioni e implicò la caduta nel tempo della Storia.
In Vedi adesso allora (traduzione di Silvia Pareschi, Adelphi, «Biblioteca», pp. 161, euro 16.50) la signora Sweet menziona quelle nozze promettenti e ne narra la fiaba al prodigioso figlio Heracles, nato nel Vermont da padre bianco, a sua volta rampollo dell’alta borghesia newyorkese, e da madre nera, giunta a New York nel 1966 su una nave proveniente dalla miseria post-schiavista dei Caraibi. Intorno al 1977 i futuri signore e signora Sweet, lui musicista e lei ormai scrittrice apprezzata, celebrarono le loro nozze in piena armonia, con la benedizione plaudente di tutte le divinità snob di Manhattan. Saranno stati felici anche loro per diversi anni, mettendo al mondo, oltre Heracles, la bellissima Persephone, nata a New York sopra quel corridoio infero che è il Lincoln Tunnel.
Il padre, tuttavia, ora la tiene nascosta fra le note delle sue composizioni musicali (per lo più Notturni tempestosi) la sua bella Persephone, perché vuole che stia lontano dalla visibilissima madre, la quale con gli anni ha perso la testa (e la linea) per amore del giardinaggio, del lavoro a maglia e soprattutto della sua scrittura, da lei praticata in una fucina ribollente, dove, nel calderone velenoso dell’anticolonialismo, ella mesta e rimesta con rabbia i frammenti di una sofferta infanzia ad Antigua.
La madre ora, infatti, non sembra più quella che era un tempo, ora che la famiglia vive nella casa dell’invernale Vermont appartenuta alla sofisticata giallista Shirley Jackson. Sua moglie è diventata – pensa il signor Sweet – la «secondina» che soffoca il suo genio, circondata com’è «da cataloghi di fiori e sementi, o semplicemente sdraiata a leggere l’Iliade o I miti greci di Apollodoro, sua moglie, quella brutta strega arrivata con la nave delle banane, era la signora Sweet». Col tempo incomprensibili dissonanze si sono assestate in questo fallimentare ‘incontro con l’altro’ che, attraverso il tormentato rimuginare del signor Sweet, si trasforma in effervescente parodia: «Ma chissà, forse una sorpresa lo aspettava oltre la soglia, perché il signor Sweet si vedeva così, sfortunato a essere sposato con quella strega di moglie nata da bestia; chissà, forse la sorpresa era la testa della moglie posta sul piatto della cucina, il corpo introvabile ma la testa mozzata, a dimostrazione che non poteva impedire la sua avanzata nel mondo, perché era la sua presenza che gli impediva di diventare quello che era davvero».
Molte sono le allusioni e le implicazioni culturali messe in circolo in questo stream of consciousness maschilista e semicomico (in altri tratti molto più comico) che Kincaid è brava a innestare nella mente pseudo-criminale del marito. Nell’atmosfera da thriller nero dei libri di Shirley Jackson si riconoscono l’ombra della mostruosa moglie caraibica Bertha Mason di Jane Eyre e quella del Calibano della Tempesta di Shakespeare, unite a un rovesciato (nel gender) mito di Orfeo, specchio ora della signora Sweet, la scrittrice di successo, che umilia la superiorità del maschio bianco americano, l’artista incompreso e sub-classato da una malefica negritudine caraibica. L’armonia di un coraggioso matrimonio interraziale quasi archetipico s’è dunque spezzata, riaprendo la voragine infernale del vivere che, almeno per l’amara signora Sweet, rimanda ad «allora», ovvero al suo passato ad Antigua.
Il divorzio fra Jamaica Kincaid e Allen Shawn, musicista e figlio del potente direttore del «New Yorker», William Shawn, fu ratificato nel 2002. Ma questa è biografia e Kincaid ha ribadito che il suo nuovo romanzo, il primo dopo undici anni, non è autobiografico, e quindi – proviamo a crederci – non è neanche un roman à clef sull’ambiente newyorkese della rubrica «talk of the town» che, negli anni settanta, segnò il miracoloso battesimo letterario di Kincaid sul «New Yorker», avviandola verso la fiaba da lei vissuta più o meno fino al 2002, quando ha anche smesso di produrre romanzi.
Vedi adesso allora è, sostiene Kincaid, un romanzo sul Tempo. In verità, su una complicata concezione (infernale) del Tempo, restituita in una dimensione narrativa in cui «tempo e spazio si fondono, diventano una cosa sola, tutto nella mente della signora Sweet». Ed è su questo progetto, tradotto (benissimo in italiano) nel fluire inarrestabile di magmatici paragrafi, che, dopo un lungo silenzio, Kincaid gioca la sua partita con il ritorno al romanzo.
Difficile seguirla talvolta nel suo marchingegno temporale, ma proviamo a darne una prova: «lei stava pensando al suo adesso, sapendo che quasi sicuramente sarebbe diventato un Allora proprio mentre era un Adesso, perché il presente sarà adesso allora, e il passato è adesso allora, e il futuro sarà un adesso allora, e il passato e il presente e il futuro non hanno un tempo presente permanente». È uno scioglilingua incantatorio che fa senso se decidiamo di scinderlo da pretese di riflessione teorica o filosofica sull’idea di Tempo. A meno che, con qualche ritocco, non ci lasciamo tentare dall’eco della scansione del tempo in Sant’Agostino in un presente, passato e futuro come esistenti solo nella percezione che la mente ne ha nel presente (un praesens de praeteritis e un praesens de praesentibus). In Vedi adesso allora il tempo, lineare o ciclico, si appiattisce su un adesso che è anche allora; l’allora, a sua volta, si scorpora in tempi e spazi diversi – il passato dei Caraibi, quello newyorkese, quello del New England, quello primordiale del mito – che finiscono col compattarsi in un solo tempo e un solo spazio esistenziale.
Tuttavia, una volta persa l’antica armonia, la dimensione del mito è la più insidiosa da incastrare nella resa del sottobosco infernale della vita e dell’eterna memoria della Storia che lo scrittore postcoloniale conserva nell’«adesso». Ma Kincaid ci ha provato, lasciando illesa la cifra mesmerica della sua scrittura che in Vedi adesso allora sa raggiungere punte di gradevole e irridente umorismo, tutte a spese del povero signor Sweet, il quale non riesce a nobilitarsi né in chi egli è «davvero» né, come si vorrebbe fra le righe, in un Cadmo o in un Plutone.
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