Jakov Blumkin, la parabola oscura
PASSATO PRESENTE Intervista con l’autore della biografia del bolscevico, poeta e assassino. «Con questo mio libro mi sono interrogato su cosa significhi davvero la narrazione di una vita». «Sembrava lui stesso considerarsi un personaggio letterario: un po’ eroe, avventuriero e bandito»
PASSATO PRESENTE Intervista con l’autore della biografia del bolscevico, poeta e assassino. «Con questo mio libro mi sono interrogato su cosa significhi davvero la narrazione di una vita». «Sembrava lui stesso considerarsi un personaggio letterario: un po’ eroe, avventuriero e bandito»
«Volevo tornare al tempo in cui le masse irrompevano sul palcoscenico della Storia, ed era la Storia in persona che dettava le sue parole». Fin dalla frase con cui Christian Salmon ha spiegato il senso dell’affascinante inchiesta che ha condotto su di una personaggio leggendario, ma altrettanto misterioso, della Rivoluzione d’Ottobre come Jakov Blumkin (Il progetto Blumkin, Laterza, pp. 264, euro 18) si intravede il senso della sfida che accompagna da sempre il lavoro di questo scrittore e intellettuale francese, quello di interrogare le vicende storiche e politiche per coglierne, attraverso le forme narrative che vi hanno preso forma, il significato più profondo e, se possibile, universale.
Per il fondatore, accanto a centinaia di altri autori di ogni parte del mondo, del Parlamento internazionale degli scrittori, membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage di Parigi, e tra i primi a occuparsi da un decennio a questa parte dello sviluppo anche nel mondo politico delle tecniche dello storytelling – l’adozione di precisi canoni narrativi nella costruzione delle figure pubbliche, o di «brand» personali, fenomeno evidente lungo un arco temporale che va da Sarkozy a Trump passando per Renzi -, la figura di Jakov Blumkin non incarna solo una sorta di alter ego per un viaggio a ritroso nella propria biografia di giovane militante trotskista, ma serve per interrogarsi sulle molteplici rappresentazioni ed eredità della Storia a partire da un evento cardine come l’Ottobre bolscevico. Non a caso, Salmon ricostruisce con il rigore dello storico e un timbro deliberatamente letterario, la confusa vicenda biografica di Blumkin che sembra svolgersi nello spazio tra due date, il 6 luglio del 1918 quando uccide l’ambasciatore tedesco a Mosca e la sua morte, avvenuta nel novembre del 1929, tradito da quella stessa rivoluzione trasfigurata nelle mani di Stalin.
La scelta di svolgere questa sorta di inchiesta storico/letteraria sulla figura di Jakov Blumkin sembra in continuità con il suo lavoro sullo storytelling e su quello che si potrebbe definire come il «romanzo della politica». È così?
Con questo libro mi sono interrogato su cosa significhi davvero il racconto di una vita, la sua narrazione a partire da fonti diverse, talvolta contraddittorie. In questo, credo di aver proseguito la mia indagine iniziata analizzando le forme dello storytelling, il modo in cui i politici, sulla scorta di quanto fanno i grandi marchi commerciali, si «raccontano» oggi. Tutta una serie di leggende circondano la figura di Blumkin, un personaggio dalla vita oscura. E ciò che più mi ha attratto in lui è che è in qualche modo rimasto impigliato nel riflesso della sua leggenda. Non abbiamo a che fare con un individuo la cui biografia ci è nota e chiara fino in fondo, quanto piuttosto, per dirla con Jean Baudrillard, con un esempio di «iperrealtà», vale a dire con «una proliferazione di miti sull’origine e sui segni della realtà» che in questo caso si traducono nel fatto che su Blumkin hanno scritto gli altri e nella sua vicenda hanno preso corpo le proiezioni di quanti volevano piegarne le vicende ai propri interessi. Insomma, quasi un «oggetto cubista» dalle molte e spesso contradditorie sfaccettature.
Ma queste apparenti contraddizioni e i tanti punti oscuri nella vita di Blumkin non hanno a che fare anche con l’epoca tumultuosa in cui visse?
Senza dubbio. Come spiegava Osip Mandel’štam, la cui figura ritorna più volte ne Il progetto Blumkin, in un testo del 1922 intitolato «La fine del romanzo», quella generazione non ha potuto avere una vera biografia. O almeno non una sola. Il debutto del Novecento coincide con un’epoca burrascosa, trasferimenti continui – diciassette cambi di casa, ambiente e scuole nella sola giovinezza del celebre poeta -; la più totale incertezza anche solo su ciò che sarebbe potuto accadere il giorno dopo. In Russia nello spazio di pochi anni accade di tutto: la rivoluzione fallita del 1915, la repressione zarista, la nuova rivoluzione del 1917, la guerra civile… come costruire una propria biografia in mezzo a tali sconvolgimenti? Proprio Mandel’štam ricorreva ad una bella immagine per descrivere questa situazione e scriveva: «le nostre vite sono come le palle del biliardo che schizzano in tutte le direzioni» e aggiungeva come i suoi contemporanei, esattamente come Blumkin e lui stesso, fossero «catapultati fuori dalle loro biografie». Per questo, alla luce di tali difficili itinerari personali parlava di «fine del romanzo». A partire da queste vite si possono comporre collage, costruire sequenze di film, come quelli di Eisenstein o Vertov, ma è difficile costruire una forma narrativa completa.
Forse, proprio perché consapevole di tutto ciò, Blumkin stesso immaginò degli elementi narrativi intorno alle proprie vicende. Fin dall’adolescenza sembrava considerarsi come un personaggio letterario, un po’ eroe, un po’ avventuriero, un po’ bandito. Voleva essere un poeta lirico, imbracciò senza esitazione la violenza politica, diventando uno di quei «terroristi» che caratterizzeranno l’epoca zarista affascinando come eroi romantici molti loro giovani contemporanei, si pensava al fianco di Trotsky, come uno stratega pronto a ridisegnare la carta politica del Medio come dell’Estremo Oriente. Una visione aperta del romanzo della sua vita, ma dove la storia, pur se in modo confuso, sembrava avere ancora la meglio sulla rappresentazione.
Una condizione che, per venire al suo lavoro sullo storytelling, sembra contrapporre la vicenda di Blumkin che ha cercato di ricostruire, con le forme attuali di racconto della politica…
Lo storytelling vuole convincerci che non esiste che un «romanzo», una sola storia. Si presenta come una sorta di religione della narrazione. Come le grandi religioni monoteiste ci dice che non esiste che un unico e solo «libro», non se ne potrebbe perciò scrivere nessun altro, a rischio di subire una fatwa come è accaduto a Salman Rushdie. Al contrario, nella realtà in cui viviamo e in ciascuno di noi, proprio come indica la figura di Blumkin, ci sono diverse storie che si osservano, dialogano, si incontrano o si combattono. Una considerazione che non va però confusa con il contesto con cui ci dobbiamo misurare attualmente.
Ciò a cui stiamo assistendo oggi rispetto a quando ho iniziato ad occuparmi di questo tema, è che siamo passati da una dimensione verticale in cui l’ufficio comunicazione dell’Eliseo o della Casa Bianca proponevano la «storia del giorno» ad uso e consumo dei cittadini, ad una dimensione orizzontale, ad una sorta di multi-storytelling in cui ciascuno di noi, attraverso la rete e soprattutto i social, diventa un protagonista di questo meccanismo. Lo spazio della comunicazione si è così trasformato in un autentico campo di battaglia dove ha luogo una «guerra delle narrazioni». Basta pensare all’elezione di Trump per essere consapevoli del peso che tutto ciò ha assunto nelle nostre vite.
In questo scenario si è così cominciato a parlare delle cosiddette fake news. In proposito lei ha citato le parole di Hannah Arendt che sosteneva come «il suddito ideale del regno totalitario» non dovesse essere convinto ideologicamente, bensì persuaso che «la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più».
Il primo effetto della guerra dei racconti cui facevo riferimento è il prendere corpo di quello che chiamo «il pianeta del discredito». La continua contrapposizione di «storie», talvolta niente altro che delle autentiche bugie, ha condotto molti cittadini a divenire sempre più agnostici, a non credere più alla parola pubblica, non solo ai politici, ma anche ai media, ai ricercatori, ai medici o agli scienziati, come indicano ad esempio le follie che vengono affermate sul clima. Una situazione che interroga il futuro stesso della democrazia che si basa, o si dovrebbe basare, sul confronto delle idee. Lo spazio mediatico dove hanno luogo queste «guerre narrative» sembra sul punto di rimpiazzare quella «democrazia deliberativa» di cui parla Jürgen Habermas, fondata su un processo discorsivo razionale.
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