Jago, un museo alla Sanità «perché lì ho trovato il genio»
LO SCULTORE INAUGURA SABATO IL SUO SPAZIO ESPOSITIVO «A gestire la struttura ci saranno ragazzi di zona, giovanissimi imprenditori alla loro prima esperienza che hanno deciso di non scappare ma di investire nel territorio che amano. Chi cresce in contesti difficili non va colpevolizzato per ciò che ha assorbito, occorrono nuovi orizzonti»
LO SCULTORE INAUGURA SABATO IL SUO SPAZIO ESPOSITIVO «A gestire la struttura ci saranno ragazzi di zona, giovanissimi imprenditori alla loro prima esperienza che hanno deciso di non scappare ma di investire nel territorio che amano. Chi cresce in contesti difficili non va colpevolizzato per ciò che ha assorbito, occorrono nuovi orizzonti»
Lo scultore Jago, al secolo Jacopo Cardillo, classe 1987, negli ultimi anni ha lasciato il suo atelier di New York per trasferirsi a Napoli, nel rione Sanità, dove sabato inaugurerà il suo museo personale nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, che dà accesso al borgo dei Vergini. È lì che ha creato la sua opera più celebre: la Pietà. Sul suo sito scrive: «Fare “scultura” significa anche cambiare le dinamiche di un luogo».
Perché ha deciso di lasciare New York per Napoli?
Ho scoperto – e queste sono le cose miracolose che avvengono quanto meno te lo aspetti – che Napoli, e soprattutto la Sanità, sanno essere magicamente ancora un terreno fertile, dove è possibile seminare. Non so spiegarne il motivo, ma ho capito che se riesci a far breccia con dei valori, quelli sono semi che diventano alberi giganteschi, che fanno ossigeno per tutti. Quando riconosci questo, devi scegliere: o diventi agricoltore e ti rimbocchi le maniche per far sì che le tue energie e la tua visione, magnificamente accompagnate in quel luogo, possano diventare un orto per tutti, oppure non fai nulla. La scelta è stata semplice: avevo già scoperto il capitale umano di quel luogo – che sono come martello e scalpello, sono gli strumenti veri – e ho deciso di investire.
Come lo ha scoperto?
Frequentando e vivendo la Sanità. Perché nel 2019 avevamo installato «Il figlio velato» nella chiesa di San Severo Fuori le Mura, un progetto nato nel 2017. Per due anni ho fatto avanti e indietro tra New York e Napoli. Sono sempre stato convinto che il luogo sia il genio, e lì l’ho trovato. Alla Sanità ho intercettato l’opera di altri, come la Fondazione di comunità San Gennaro, la Cooperativa La Paranza, l’Opera di padre Antonio Loffredo, che è stato un partner e un mentore importantissimo in questa operazione. Complice il Covid, ho deciso così di trasferirmi.
Crede che questo Museo possa dare un contributo positivo alla trasformazione del tessuto sociale del quartiere?
Credo proprio di sì. Tanto per cominciare, i ragazzi che gestiranno il museo sono giovanissimi imprenditori della zona, alla loro prima esperienza, entrati nella cooperativa La Paranza, che già gestisce magnificamente le Catacombe di Napoli. Giovani che hanno deciso di non scappare via ma di responsabilizzarsi e di investire il proprio capitale umano sul territorio che amano, per mettere in moto un meccanismo di accoglienza che loro, meglio di chiunque altro, possono attivare.
È un territorio anche violento, a volte…
No, non esiste luogo al mondo – e giro molto – dove mi sento più sicuro che a Napoli.
Non le manca New York?
Beh, io a New York devo molto. Non agli Stati uniti in generale, ma a quella città. Perché ho vissuto lì durante un momento di necessità e mi ha messo alla prova. I luoghi che ti creano difficoltà sono sempre i migliori. Ma in fondo no, non mi manca, perché il mio mondo me lo porto sempre dentro una borsa.
Napoli come New York è una città aperta al mondo, dove le famiglie sono di tutte le forme. Ma, come spiegano i ricercatori del Cesvi, sono spesso anche a rischio di disfunzionalità. Nella sua esperienza dov’è che si apprendono oggi i valori di solidarietà e rispetto?
Non so se ho una risposta. Il fattore dell’eredità è importante, ma non necessariamente arriva dalla famiglia. L’istituzione, scolastica prima di tutto, ma le istituzioni in generale, hanno il dovere grande di regalare ai giovani – tutti, me compreso – una prospettiva, di aprire una finestra su un orizzonte nuovo. Perché non c’è colpa nell’ereditarietà: un ragazzo che cresce in un contesto difficile non può essere colpevolizzato perché ha assorbito certi disvalori. Ma può essere educato, con l’esempio soprattutto. Siamo tutti bravi a fare la morale agli altri, ma poi nel segreto delle nostre mura domestiche si creano mostri. Una volta alla Sanità ho visto un carabiniere che ha fermato un ragazzino senza casco su un motorino e invece di redarguirlo o multarlo gli ha fatto provare il suo casco e lo ha fatto salire sulla sua moto per fargli capire che senza quel casco quella moto, così bella agli occhi del ragazzino, era solo uno strumento di morte. Lo ha fatto emozionare e fantasticare su una cosa che lo interessava, gli ha dato una prospettiva nuova. È chiaro che avere dei punti di riferimento sani, come la scuola, aiuta. Ma non c’è una regola: ci sono persone che hanno tutto, una famiglia regolare, e sono diventati delinquenti. E persone che non hanno avuto nulla e sono diventati dei geni assoluti. E io non ho una misura di dove e quando questi punti di riferimento si debbano manifestare. C’è chi riesce a fare tesoro di una difficoltà, e chi ci muore dentro. C’è un’alchimia, una magia che riguarda l’individuo, ciascun bambino.
Mi viene in mente il suo bambino velato, con la sua carica di mistero…
Nella chiesa di San Severo dove c’è l’opera, una signora viene tutti i giorni e manda un bacio a quel bambino perché, dice, gli ricorda suo figlio. Dietro quel velo, ognuno ha la libertà di poter vedere la propria verità.
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