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Jaeger, Berti e il dibattito sull’adesione di Aristotele a Platone

Jaeger, Berti e il dibattito sull’adesione di Aristotele a PlatoneSalvator Rosa (1615 - 1673), L’Accademia di Platone, acquaforte e puntasecca, foto Sepia Times/Universal Images Group via Getty Images

Classici perduti Convinti di poter ricostruire lo sviluppo del suo pensiero, a partire dall’Ottocento gli studiosi diedero la caccia a frammenti e tracce del cosiddetto Aristotele perduto

Pubblicato circa un anno faEdizione del 27 agosto 2023

Nei due volumi intitolati L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, comparsi nel 1936, Ettore Bignone tentava di mostrare come l’epicureismo non fosse un blocco monolitico, con la sola matrice nell’atomismo democriteo, ma si costituisse attraverso la polemica nei confronti soprattutto di Aristotele. Ma quale Aristotele? Non quello dei trattati pervenuti sino a noi, bensì quello degli scritti per noi perduti, destinati a un pubblico anche esterno alla scuola e ammirati da Cicerone e Quintiliano per i loro pregi letterari e stilistici. Stando invece ad alcune notizie, di cui è difficile valutare l’attendibilità, i trattati a noi noti sarebbero scomparsi dalla circolazione nell’età Ellenistica, per ricomparire poi a Roma nel I secolo a.C. L’impatto dell’opera di Bignone fu notevole in Italia e all’estero: ‘Aristotele perduto’ divenne una sorta di slogan. Ne fu colpito il giovane Sebastiano Timpanaro, che ancora nel 1993 l’avrebbe giudicata opera farraginosa, prolissa, eppure geniale. Sotto la guida di Bignone un allievo di Werner Jaeger, l’ebreo Richard Walzer rifugiatosi in Italia dalla Germania, pubblicò nel 1938 un’edizione dei frammenti dei dialoghi aristotelici perduti.
Chiara è l’influenza determinante su Bignone esercitata dal libro di Jaeger del 1923, Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, tradotto in italiano da Guido Calogero nel 1935 (Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, La Nuova Italia editrice). In esso convergevano due prospettive metodiche centrali nella filologia classica tedesca dell’Ottocento. Una era l’esigenza di ricostruire lo sviluppo del pensiero dei filosofi antichi, anziché darne esposizioni puramente sistematiche, una linea che aveva già dato buone prove soprattutto nello studio di Platone, con i numerosi tentativi di determinare la cronologia dei dialoghi. Jaeger adottava la stessa prospettiva anche per Aristotele e, a tale scopo, si agganciava all’altra linea di ricerca, vòlta a rintracciare in autori più tardi frammenti e tracce di opere più antiche, andate perdute.
Già nell’Ottocento numerosi studiosi, come tanti Indiana Jones, erano andati a caccia di queste tracce per opere teatrali, tragiche e comiche, nonché per oratori, storici e così via. Per la filosofia il culmine sarebbe stato l’edizione dei Presocratici a opera di Hermann Diels. Ma anche Aristotele non era rimasto estraneo a queste esplorazioni. Già nel 1823 Christian August Brandis aveva pubblicato De perditis Aristotelis libris de Ideis et de Bono, sive de Philosophia, dove, attingendo soprattutto al commento di Alessandro di Afrodisia al primo libro della Metafisica aristotelica, raccoglieva frammenti dello scritto Sulle idee, nonché di quello Sul bene, considerato da lui identico a quello avente per titolo Sulla filosofia. Figura significativa fu l’ebreo Jacob Bernays, condiscepolo di Nietzsche alla scuola di Friedrich Ritschl, amico di Theodor Mommsen e zio di Freud, il quale pubblicò nel 1863 un volume su I dialoghi di Aristotele, dove argomentò che il perduto Hortensius di Cicerone dovesse avere come modello il Protrettico di Aristotele, un’esortazione alla filosofia, condotta in polemica con Isocrate. Egli presentò inoltre il perduto Sulla filosofia come un dialogo articolato in tre libri, contenenti il primo un’esposizione storica delle filosofie preplatoniche a partire dall’Oriente extra-greco, il secondo una critica del sistema platonico e il terzo un’esposizione della cosmologia e teologia aristotelica. «Oggi sembra facile – osservò Wilamowitz – ma egli additò la strada di un’analisi delle fonti capace di recuperare scritti perduti». Sotto la guida di Bernays, il suo allievo inglese Ingram Bywater in un articolo del 1869 rintracciò nel Protrettico del neoplatonico Giamblico, da lui giudicato «il più svergognato dei centoni», citazioni testuali del Protrettico aristotelico.
La questione filosoficamente decisiva per la possibilità di delineare uno sviluppo storico del pensiero aristotelico era il tipo di rapporto con le dottrine platoniche, che poteva essere rintracciato in questi scritti perduti. La tesi di Jaeger era quella della transizione di Aristotele da un’adesione al platonismo a una critica di esso, per approdare infine all’Aristotele impegnato in ricerche empiriche. Punto cruciale era l’atteggiamento verso la tesi platonica dell’esistenza di idee separate dalle entità sensibili, criticata con forza da Aristotele nello scritto Sulle idee. Jaeger e altri al suo seguito, tra i quali Bignone, partivano dal presupposto che per tutto il suo soggiorno nell’Accademia platonica, Aristotele avrebbe aderito alla dottrina delle idee, come mostrerebbero soprattutto il dialogo Eudemo e il Protrettico, mentre un primo atteggiamento critico sarebbe cominciato a emergere nel dialogo Sulla filosofia, che doveva dunque essere stato composto dopo la morte di Platone e lo stesso si poteva dire dello scritto Sulle idee. Questa tesi trovò presto numerosi oppositori, tra i quali si possono ricordare lo svedese Ingemar Düring, autore di una vasta monografia generale su Aristotele del 1966, ed Enrico Berti col suo La filosofia del primo Aristotele del 1962 (Olschki), ripubblicato da Vita e Pensiero nel ’97. La prospettiva evolutiva era condivisa sia da Berti, sia da Düring, che forniva anche una ricostruzione delle fasi cronologiche del pensiero aristotelico. Entrambi però ritenevano che sin dal periodo accademico Aristotele avesse condotto una critica alla dottrina delle idee separate: non c’era ortodossia nell’Accademia né la qualifica di platonico poteva essere ridotta alla sola adesione a tale dottrina. In un certo senso, diceva Düring, Aristotele era rimasto platonico in tutto il corso della sua attività.
ll libro di Berti ha rappresentato anche una sorta di bilancio conclusivo. In seguito il clima acceso delle discussioni sull’Aristotele perduto si è venuto progressivamente raffreddando. Un caso a parte è costituito dal libro Sul bene, considerato un’esposizione di lezioni di Platone riguardanti anche una dottrina dei principî, l’uno e la diade indeterminata, dai quali deriverebbe il tutto, dottrina che non trova riscontri espliciti nei dialoghi platonici. Questo scritto è stato una delle pezze di appoggio per attribuire a Platone tali dottrine orali, considerate dalla cosiddetta scuola di Tübingen, in particolare da Hans-Joachim Krämer, seguito in Italia da Giovanni Reale, come l’espressione del pensiero più autentico di Platone sin dagli inizi. Altri interpreti invece, in particolare Harold Cherniss e in Italia Margherita Isnardi Parente, hanno respinto tale tesi, ritenendo che esse fossero tema di elaborazione e discussione all’interno dell’Accademia platonica.
Si ebbero ancora edizioni importanti dei frammenti del Protrettico a cura di Düring (Göteborg, 1961), del dialogo Della filosofia a cura di Mario Untersteiner (Edizioni di Storia e Letteratura, 1963) e dello scritto Sulle idee a cura di Dieter Harlfinger, con traduzione e commento di Walter Leszl (Olschki, 1975). A parte le difficoltà di attribuire ad Aristotele determinate dottrine nei casi di scritti in forma dialogica, sorsero sempre più dubbi sulla possibilità di ricostruzioni sicure, a eccezione dello scritto sulle idee, fondato su una fonte attendibile quale Alessandro di Afrodisia. Già Jaeger riteneva che la tesi di distruzioni totali periodiche del mondo, che si riteneva di ritrovare in Della filosofia, fosse in realtà di matrice stoica. In un saggio del 1965 Wolfgang Haase mostrò che un presunto ampio frammento sull’etimologia della parola sophia e i vari significati di essa, era in realtà riconducibile ad Aristocle di Messene e a considerazioni elaborate in ambienti neoplatonici. Ma con ciò s’indeboliva radicalmente la tesi che il primo libro contenesse una storia della filosofia preplatonica. Troppo generosa era l’edizione di Untersteiner, che arrivava a includere come frammenti ampi passi della stessa Fisica aristotelica e a ritrovarvi già dottrine tipicamente aristoteliche, come quelle di materia e forma, potenza e atto. E la stessa cosa si può dire per l’edizione Düring del Protrettico: egli riconosce come sicuri solo due frammenti, ma ne include ben 110, mentre Olof Gigon nella sua edizione dei frammenti aristotelici (De Gruyter, 1987) ne includerà appunto solo due. Düring sosteneva che Giamblico doveva attingere, oltre che da dialoghi platonici, solo dal Protrettico aristotelico, come mostrerebbe la totale congruenza con il lessico aristotelico. Ma la documentazione sul lessico è tratta dagli scritti conservati, per cui non si può escludere che Giamblico potesse attingere anche da questi ultimi, per esempio la tesi della tecnica che imita la natura. Da varie parti si sono sollevati dubbi sulla tesi della fonte unica e anche i pochi che l’hanno ripresa, hanno tuttavia avanzato riserve sulla possibilità di ricostruire la struttura retorica e letteraria dello scritto aristotelico. Anche se in maniera meno intensa rispetto al passato, la ricerca dell’Aristotele perduto continua a essere aperta.

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