Jacques Tourneur, il «particolare» del grande artigiano
Cinema Una retrospettiva a Locarno 70 dedicata al grande cineasta che ha firmato tra il 1930 e il 1965 più di trenta lungometraggi tra pirati, avventure di guerra e di spionaggio, film noir e storici
Cinema Una retrospettiva a Locarno 70 dedicata al grande cineasta che ha firmato tra il 1930 e il 1965 più di trenta lungometraggi tra pirati, avventure di guerra e di spionaggio, film noir e storici
La chiamano «retrospettiva». Ogni festival ne ha almeno una. Alcuni ne fanno un evento centrale. Locarno è fra questi. Ogni anno, il festival sceglie un autore del quale riunisce pazientemente una larga filmografia, un’opera monografica accompagna l’evento e tutti i film sono presentati da esperti. La scelta di Jacques Tourneur permette quest’anno di ritrovare uno degli autori più importanti del cinema Hollywoodiano. Tourneur ha attraversato tutto il periodo classico, firmando tra il 1930 e il 1965 più di trenta lungometraggi tra pirati, avventure di guerra o di spionaggio (Berlin Express), film noir, film storici (The King Without a Crown), splendidi western (Wichita, Canyon passage). Ma è anche uno di quei registi la cui l’opera è tra le più difficili da vedere. Sia perché molte pellicole sono diventate rare (e che, come ha spiegato uno dei curatori Roberto Turigliatto le cineteche sono sempre più restie a farle circolare). Sia perché, in quanto opera, il lavoro di Tourneur resta in gran parte oscurato da alcune etichette che ne riducono il senso senza per altro definirne distintamente i confini.
Tourneur è nato in America, da una madre attrice e da un padre regista e ha iniziato a girare i suoi primi film in Francia. La visione delle due commedie sentimentali Toto (1933) e Pour être aimé (1933) conferma quello che Tourneur stesso afferma nel documentario «Directed by Jacques Tourneur»: la sua carriera comincia in America. Il cinema, afferma Tourneur, è una «fabbrica», ed è ad Los Angeles che si fa. Sono parole tipiche dei cineasti della sua generazione, che amano presentarsi come semplici artigiani impiegati degli studios. Ci si può stupire della loro modestia, o sospettare una certa ironia. Tourneur le pronunciava con convinzione, senza il mutismo di John Ford o le pose di Douglas Sirk: era veramente solo un capomastro in una grande fabbrica?
È noto che, negli anni 1950, i critici francesi che scoprirono e rivalutarono il cinema hollywoodiano elessero alcuni di questi artigiani al rango di autori, lasciando molti nomi per strada. La prima «retrospettiva» è stata quella. È altresì noto anche che Tourneur non ne ha fatto parte. È rimasto tra gli artigiani, nell’ombra. Ancora oggi, del suo film più noto, Cat People, si conosce di più il racconto evocatore che ne fa Minnelli in The Bad and the Beautyful che il film vero e proprio. E c’è sempre il sospetto che la geniale trilogia soprannaturale (gli altri due sono I Walked with a Zombie, giustamente onorato della proiezione in piazza grande, e The Leopard Man) sia più merito del produttore-sceneggiatore Van Lewton che di Tourneur. Oppure, al contrario, che l’autore del trittico sia proprio di Tourneur, il quale perciò viene identificato con l’idea (geniale certo, ma limitata) di far crescere la tensione sfruttando l’immaginario fuoricampo.
Chi è in definitiva Tourneur ? Forse la cosa migliore è dare la parola ad uno dei suoi personaggi più belli: il detective interpretato da Robert Mitchum di Out of the Past: «I think I am in a frame… All I can see is the frame. I am going in there now to look at the picture (Penso che mi hanno incastrato, ma vedo solo la cornice, mi manca il quadro.)».
L’eroe di Tourneur scivola lentamente in una voragine che si chiude progressivamente intorno a lui. Contrariamente all’eroe di Fritz Lang, che cerca con angoscia di sfuggire al proprio destino, finendo involontariamente per accelerare la propria sorte, l’eroe di Tourneur conosce perfettamente quello che lo aspetta. La magnifica pirata di Anne of the Indes (Jean Peters) non si fa illusioni sull’esito del combattimento nel momento in cui decide di affrontare il suo vecchio mentore Barbanera. Così come Wyatt Earp (Joel McCrea in una delle sue interpretazioni più belle) sa che difendendo la legge fino in fondo si metterà contro i propri stessi committenti. Sanno che li attende la morte, ma invece di evitarla continuano ad avanzare, senza paura e false illusioni, con una sorta di forza tranquilla. Che cosa li muove? La curiosità, certo; il gusto di sapere come va a finire; è chiaro che per i personaggi di Tourneur il movente dell’azione è la necessità stessa di viverla, e in un certo senso di contemplarla…
Eppure l’azione è semplice. Ha un fine chiaro, e chi si dedica a perseguirlo gioisce dei frutti o ne paga il prezzo. Partendo da quest’etica elementare, in cui il contrasto è altrettanto netto che i chiaroscuri con i quali scolpisce i volti dei propri attori, Tourneur fa emergere sempre un elemento al contrario ambiguo. L’amore della pirata Anne Providence, la possessione in I Walked with a Zombie. Il punto è: che cosa è possibile vedere? Tourneur è stato bollato («framed» anch’egli) come il cineasta del fuori campo. Rivedendo i suoi film appare come un cineasta che cerca di far apparire l’invisibile nell’inquadratura. L’invisibile ovviamente è il pensiero, vale a dire l’insieme di mille passioni che stanno dietro all’azione ma che l’azione attuandosi nega. È di questo sommerso che Tourneur ci fa godere, camminando senza fretta accanto agli zombi, agli uomini leopardo, ai mandriani del Colorado e agli avvocati di Hollywood.
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