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Jaco Van Dormael, la magia di Toto

Jaco Van Dormael, la magia di Toto

Intervista Vivere tante vite possibili: a colloquio con il regista di «Toto le héros», film del 1991 adesso restaurato e distribuito in Italia

Pubblicato più di un anno faEdizione del 20 maggio 2023

Recentemente omaggiato al Bergamo Film Meeting, il belga Jaco Van Dormael torna al cinema dal 22 maggio con la versione restaurata del film che lo ha fatto conoscere vincendo a Cannes la Caméra d’or, Toto le héros (1991), distribuito da I Wonder Pictures. Cineasta con una filmografia all’apparenza poco densa (4 lunghi in trent’anni circa), Van Dormael è in realtà un artista senza posa: regista e performer teatrale, clown, autore di corti e qualche documentario, scrittore e sceneggiatore con una fantasia galoppante e senza compromessi che può richiedere decenni interi per compiere un progetto. Talvolta a richiedere tempo è la scrittura stessa, altre volte sono questioni produttive: basti pensare al budget importante riunito per realizzare, a tredici anni di distanza da L’Ottavo giorno (1996), l’apologo fantascientifico Mr. Nobody (2009) con Jared Leto nei panni dell’ultimo mortale su una Terra che ha ormai sconfitto la morte. «Quello è forse il mio preferito. Perché i film sono come i figli, tendiamo ad amare un po’ di più quelli che fanno più fatica», ha confidato il regista al pubblico di Bergamo.

Dal canto suo, la sceneggiatura di Toto le héros richiese quasi sette anni, come ci ricorda al telefono: «ho iniziato a scriverlo tra i 22 e i 23 anni e l’ho finito a 30. Di solito, quando si scrive una sceneggiatura si procede in levare per concentrarsi su una linea narrativa principale, io invece continuavo ad aggiungere ramificazioni finché sono arrivato a ottenere un testo di oltre mille pagine che ho dovuto progressivamente ridurre. Io volevo raccontare la storia di un bambino, quella di un uomo adulto e quella di un anziano e un amico mi ha consigliato di intrecciarle. Alla fine, abbiamo ottenuto una struttura simile a quella di Amarcord in cui i diversi fili narrativi sono ben sviluppati e legati tra loro dalla matrice del ricordo».

Toto le héros è la storia di un’ossessione: il protagonista rimpiange la vita che avrebbe potuto vivere se non fosse stato scambiato in culla con un altro durante una notte di tregenda. Le memorie d’infanzia dell’uomo ormai anziano si intrecciano ai sogni del bambino che fu, desideroso di diventare un detective capace di riscattarsi da ogni torto. Sogno e allucinazione, verità e leggenda si confondono nel labirinto affabulatorio concepito da un narratore inattendibile che ha il volto di un bambino disincantato e di un vecchio irrequieto. Il film slitta continuamente da un piano temporale all’altro, da un registro favolistico all’iper-realismo, dall’incanto al dramma.

Che effetto le fa rivedere oggi il film che le ha cambiato la vita?
È una grande emozione e fortuna rivederlo oggi sul grande schermo. Non è scontato continuare ad amare ciò che si è fatto in passato. Ricordo che all’uscita qualcuno criticò il ritmo troppo veloce e la quantità eccessiva di cose che accadevano nel film mentre a vederlo oggi non si ha per nulla questa sensazione di eccesso, il pubblico e il linguaggio del cinema sono molto cambiati.

A questo proposito, con «Toto» lei ha ideato un linguaggio e un immaginario mescolando Dick Tracy e Orson Welles, Borsalino e Claude Chabrol. Cosa la ispirò di più dal punto di vista visivo?
Il mio desiderio era soprattutto quello di lavorare sul contrasto tra il mondo variopinto e naïf dell’infanzia e il grigiore o il bianco/nero della vecchiaia. Tutto l’immaginario del noir è la falsa pista attorno a cui avevo architettato la sceneggiatura in quanto sogno eroico del personaggio che vuole vendicarsi dai presunti cattivi che gli avrebbero rovinato la vita.

Toto finisce per rendersi conto che l’unica vita possibile è quella che abbiamo e ci tocca viverla senza rimpianti nonostante tutto: in fondo è l’idea costante di tutti i suoi film, anche «L’ottavo giorno» celebrava ogni vita come degna di essere vissuta e «Dio esiste e vive a Bruxelles» era un invito a godersi ogni istante, no?
Sì, ogni volta che faccio un film mi dico che sarà diverso dal precedente e poi mi rendo conto che non faccio altro che parlare sempre di quella strana esperienza che è la vita. E anche del fatto che se diventiamo sceneggiatori della nostra esistenza, credendoci dei personaggi, rischiamo di non vivere per davvero. È esattamente questo che accade a Thomas-Toto: ha creato una drammaturgia in cui lui è il buono e l’altro è il cattivo e alla fine invece le cose stanno forse diversamente, potrebbe essere stato lui a distruggere la vita dell’altro mentre si illudeva del contrario sprecando l’esistenza a furia di raccontarsi una versione di comodo. Il pericolo è credersi dei personaggi mentre le cose sono più complesse perché, come sapeva bene Pirandello, siamo uno, nessuno e centomila.

Poi c’è sempre di mezzo il destino, come se il cinema fosse per lei un modo per interrogare le tante vite possibili o impossibili, per riscrivere la vita. O forse per esorcizzare la morte?
Si fa cinema perché non si è stati capaci di scegliere cosa diventare da grandi. Il cinema permette di essere un uomo, una donna, un bambino, un uccello, un cane, di vivere nel diciassettesimo secolo o al Polo Nord, di provare empatia con chiunque non sia te, qualcosa che amo molto. La scrittura in fondo non è altro che una forma di consolazione. Nei film le cose sono chiare, le cause determinano delle conseguenze, la fine dà un senso a tutto ciò che la precede e ogni scena è indispensabile mentre nella vita le scene più belle forse non sono le più fondamentali, le cause e le conseguenze non sono mai ben distinte e la fine non attribuisce alcun significato particolare a quel che è avvenuto prima. Pasolini diceva che la differenza tra la vita e il cinema è che quest’ultimo racconta una vita dopo che si è conclusa, quando mille versioni sarebbero possibili. In Toto il protagonista sceglie di raccontarsi in un modo che sarebbe potuto essere diverso anche se magari per lui non si tratta di una scelta consapevole.

Fu difficile per un esordiente come lei arrivare a lavorare con un attore del calibro di Michel Bouquet?
Per niente, il suo numero e indirizzo erano sull’elenco del telefono. Mi è bastato chiamarlo, riconoscendo subito la sua voce inconfondibile, inviargli la sceneggiatura per posta e dopo tre giorni mi ha richiamato accettando. Sul set mi chiese «quanti anni ha davvero il mio personaggio?» e io: «cinque» e lui è diventato perfettamente collerico, testardo e innamorato come un bambino.

E cosa rappresenta per lei la musica di Charles Trenet che torna di film in film?
È la memoria dei miei genitori che conoscevano i testi delle canzoni, è la gioia leggera, spensierata dell’infanzia, quando la felicità esiste e si sorride senza alcuna particolare ragione.

Le sue architetture cinematografiche e teatrali sono ambiziose come quelle di un bambino che disponga di tutti i mezzi possibili per realizzare le sue fantasie. Lei cosa sognava di diventare da bambino?
Volevo fare il cuoco e tra l’altro sarebbe stata una vita più semplice, con risultati più immediati. Ma sarei rimasto egualmente stupito dalla differenza tra i ristoranti pieni e quelli vuoti così come non mi spiego perché ci sono film che attirano e altri che restano lettera morta tanto più che il successo rende i film ulteriormente attraenti lasciandone in ombra altri che invece meriterebbero. Ultimamente ho visto Women Talking di Sarah Polley che è un film splendido ed eravamo quattro gatti in sala, un vero peccato. Non capisco mai cosa piaccia al pubblico, io i miei film li faccio come messaggi in bottiglia e non so mai se e come verranno raccolti. Perché ognuno riscrive un film a proprio modo. Michel Bouquet diceva la stessa cosa ai suoi studenti: non siete voi a recitare ma il pubblico. A voi tocca farlo recitare. In fondo un film si scrive quattro volte: la prima è la sceneggiatura, la seconda il girato, la terza il montaggio, e la quarta, più importante, è la ricezione fatta di invenzioni e percezioni.

Poi c’è la quinta che è il restauro. Questa uscita in sala prelude a un prossimo film?
Sono sette anni che riscrivo un progetto sui sogni e su tutte quelle domande esistenziali destinate e rimanere senza risposta…

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