Jack Kerouac, ribelle e spirituale
Mostra "Kerouac Beat Painting" al Maga di Gallarate fino al 22 aprile, una scoperta
Mostra "Kerouac Beat Painting" al Maga di Gallarate fino al 22 aprile, una scoperta
Jack Kerouac, lo scrittore americano Beat che ha fatto sognare tante giovani generazioni in quasi ogni parte del mondo con il suo On the Road oggi, quasi inaspettatamente, non entra in libreria ma, per la prima volta in Italia, nelle sale di un museo, il Ma*Ga di Gallarate, grazie alla sua opera pittorica e i suoi disegni, con la mostra «Kerouac Beat Painting», aperta fino al 22 Aprile.
A volte posizioni di vita e politiche molto diverse, chissà come, riescono ad avvicinarsi e incontrarsi quasi magicamente. Già, anche contro ogni aspettativa.
Quindi, entusiasticamente presentato dal presidente leghista della regione Lombardia, Roberto Maroni, che ‘ammette’ subito di avere avuto sempre «una passione personale» per lo scrittore, genio turbato della controcultura americana e perenne outsider, le sale del Museo raccontano un Kerouac per noi molto poco conosciuto. Attraverso la fotografie di Ettore Sottsass e Robert Frank, attraverso il film da lui sceneggiato, Pull my Daisy, di cui è voce narrante fuori campo e in cui recitano altri protagonisti della scena Beat, come Gregory Corso e Allen Ginsberg, sono soprattutto esposte le sue ottanta opere, tra quadri e disegni.
Forse nei disegni e nei dipinti Kerouac si espone ancora di più e, restando comunque sempre all’interno delle sue tante contraddizioni, cerca di trovare un modo per essere capito, accettato e, perché no, apprezzato. Jack Kerouac, attraverso i suoi libri, e oggi possiamo dire anche attraverso la sua attività pittorica, si racconta in modo sempre più totale.
Appassionato di arte – aveva conosciuto e studiato l’arte Europea del passato – aveva incontrato il mondo artistico americano, studiato i maestri della pittura informale e quelli della scuola di New York, che aveva poi cominciato ad avvicinare e frequentare dalla seconda metà degli anni ’50.
Questa è una storia che è stata esposta molto poco ma, ultimamente, si è cominciato ad apprezzarla sempre più ed è quindi arrivata al Whitney Museum of American Art di New York, al Centre Pompidou di Parigi, al ZKM di Karlsruhe in Germania. Poche e selezionate mete d’eccellenza e, anche a seguito del lascito testamentario gestito dal cognato John Sampas da poco scomparso, queste opere – che sono state conservate per decenni nella città natale di Kerouac, Lowell, in Massachusetts – oggi cominciano ad essere esposte e conosciute nel mondo. Ultimamente poi, molte opere sono state cedute ad una serie di collezionisti privati che fanno capo al Revellino LDV, a Locarno.
Il percorso espositivo segue delle tappe fondamentali della vita artistica e letteraria di Jack Kerouac, intrecciate vicendevolmente in una ricerca personale di una risposta e affermazione di se stesso.
Ci sono dunque anche i ritratti di personaggi famosi, come Joan Crawford, Truman Capote, Dody Muller, e anche il cardinal Montini. E anche la sua casa, il suo mondo e la sua cultura Beat, quella raccontata dalle immagini di Robert Frank e dalle parole spesso non facili di William Burroughs.
La borghesia americana, soprattutto nell’immediato dopoguerra, tutta impacchettata da un perbenismo fatto di buone maniere e sorrisi sfolgoranti, non poteva, non era in grado di avvicinare una nuova cultura che si preparava invece a rovesciare e mettere in discussione ogni parvenza di quella ipoteticamente sana e vincente società.
Forse si dovrebbe pensare a Kerouac come un Ulisse perennemente in viaggio, continuamente alle prese con le proprie domande mai risolte, con i ricordi da cui cerca di trarre saggi insegnamenti. È un Ulisse che continua a vivere anche grazie ai ricordi, grazie a un viaggio mai finito, e che continua ad essere un’eterna attesa di casa, di Penelope, di Itaca e, forse, di sguardi realmente amici.
Una parte della mostra, forse la più drammatica, è quella dedicata al suo viaggio in Italia. Raccontato tramite l’intervista televisiva fatta da una giovanissima Fernanda Pivano, incontriamo un Jack Kerouac che tenta di sembrare disinvolto e divertente, ma è di fatto sempre meno cosciente e sempre più ubriaco. Sono immagini che chiunque dei tanti lettori e ammiratori delle vicissitudini di On the Road, non può che trovare come una tragica dichiarazione di solitudine e un grido soffocato d’aiuto. Il Kerouac che abbiamo conosciuto da sempre, o forse che da sempre abbiamo creduto di conoscere, ha continuato ad essere il «bello e dannato», il campione di football e poi il bohémien che, girando il mondo, cercava storie ed esperienze di cui scrivere, in un modo che si sarebbe rivelato sempre più diretto e sempre meno controllato.
Incontriamo così il Jack Kerouac fondatore della Beat Generation, e capiamo sempre meglio i modelli a cui voleva tendere e le tante regole da cui fuggire. Precursore delle rivoluzioni che sarebbero poi arrivate, della rivoluzione e liberazione sia sessuale che culturale, ha posto i presupposti per le tante contestazioni sia negli Stati Uniti che in Europa. E poi forse anche i presupposti per The Summer of Love di Woodstock, nell’agosto del 1969. Solo due mesi prima del suo saluto finale, il 21 ottobre di quell’anno.
Tra i suoi dipinti incontriamo complicati disegni e appunti grafici, dipinti che trasmettono la sua angoscia e il suo disagio di fronte a una vita all’interno della quale non riesce a considerarsi benvenuto. Una sorta di etica personale lo porta a sperimentare, ad apprezzare sempre più la spontaneità e un’onestà culturale, sia scritta che disegnata, che dipinta. Troviamo il ribelle ma troviamo anche e soprattutto un Kerouac inaspettato con un grande coinvolgimento con i temi del sacro e cattolici. Un’altra e ultima sezione della mostra indaga delle relazioni che Kerouac riuscì a stringere con la cultura artistica di New York, con l’espressionismo astratto, a cui spesso si è ispirato, e soprattutto con la musica jazz e le sue regole di improvvisazione.
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