J. Rodolfo Wilcock disse che Lo stereoscopio dei solitari (Adelphi, 1972), raccolta di racconti brevissimi dalla quale l’umanità è pressoché (nominalmente) bandita, è un romanzo con settanta personaggi principali che non si incontrano mai. Se così è, allora questo singolare dispositivo ottico restituisce il ritratto del mondo dopo una apocalisse che ha lasciato dietro di sé una capricciosa selezione di sopravvissuti: tra questi, così come sarà nel Libro dei mostri, diversi animali, esseri mitologici, ecc.

Generalmente i mostri di Wilcock assumono posture antropomorfe, ciò che insinua a ogni passo una satira tutta dedicata alle miserie dell’uomo da una prospettiva beffardamente non antropocentrica (l’intelligenza di Wilcock ci giunge in forma scritta – scritta nella lingua del futuro – sotto forma di cartoline spedite da una epoca imprecisata tra i Sumeri e la fine del XVII secolo d.C., prima comunque dell’Illuminismo, prima di noi, prima della cultura come opportunità. Anche per questo, se non lo si legge sprovvisti di intenzioni, Wilcock infastidisce).

Nella sua Arca sbilenca Lo stereoscopio dei solitari non poteva che imbarcare un grosso aracnide, il re degli «orrori» naturali. Il racconto «Il ragno» – che consta di 1574 caratteri spazi inclusi – comincia così: «Il ragno si annoia, ma non sa di annoiarsi. Ha già percorso diverse volte la sua tela e ha rammendato gli squarci; poi, per fare qualcosa, ci ha aggiunto qua e là delle piccole migliorie, piuttosto inutili poiché nessuno arriva».

La giornata del protagonista prosegue nella sua inerzia invincibile che è subito dolcezza, innocenza: «A volte un seme leggero, portato dal vento, si imbatte nei fili; il ragno si affaccia, diffidente e speranzoso, fa per avvicinarsi, capisce che è stato un falso allarme e rientra nella sua galleria conica insaccata tra due foglie morte. Tanto lavoro per niente».

Infine, dopo alcune evoluzioni dettate dal fatto che «il ragno lascia la sua tela e va a fare quattro passi sull’oleandro in fiore. Si sente nell’addome la voglia di fare dei fili, tanti fili», il racconto si conclude con una scintilla: «il ragno cade a terra e ancora scosso dall’emozione riprende la strada verso la tela abbandonata, ostinato, invece di fermarsi lì e tesserne un’altra».

La «biografia» di questo illustre abitante del pianeta è presto detta. Millecinquecento battute come millecinquecento pagine, c’è tutto: la noia dell’esistenza, il vuoto, il tentativo di «tessere una tela» (o una trama), le istanze irriducibili del corpo, che poi sono anche quelle della mente, qualche vaga o vagheggiata avventura, e il nostos, il ritorno a casa, trasformati e però uguali, «ostinati». È il riassunto della Odissea? L’orrore comunque è svanito, il mostro del racconto di Wilcock è fuori cornice, nel racconto non compare: è un mostro terribile, peloso e munitodi zampe unticce, violento e privo di empatia, tesse i fili di trame oscure, si aggirava in lungo e in largo sul pianeta prima della apocalisse, in cerca di opportunità, carico di intenzioni, e aveva un sacro terrore dei ragni.