Visioni

J.J. Cale, la rivoluzione discreta di un grande outsider

J.J. Cale, la rivoluzione discreta di un grande outsiderJ.J. Cale live nel 2004 – foto LaPresse

Musica Nel decimo anniversario della scomparsa, un ritratto del geniale chitarrista americano

Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 agosto 2023

Il 26 luglio è caduto il decimo anniversario della morte di J.J. Cale, un uomo che ha fatto la storia della musica, ma di soppiatto, senza farsi troppo notare. Il suo cammino verso il (relativo) successo è stato lunghissimo. A 8 anni impara a suonare il pianoforte, ma poi gli preferisce una chitarra. Strumento che, a partire dall’esplosione del rock’n’roll a metà dei ’50, acquisisce una grande importanza. Quando viene chiamato per il servizio militare, entra nell’Air Force e impara i primi rudimenti di registrazione all’Air Force Institute Of Technology. John Cale, chiamato solitamente Johnny, si fa strada nella scena di Tulsa come musicista, il più quotato insieme al pianista Leon Russell; incide numerosi singoli r’n’b con vari nomi e formazioni, e si concentra sugli strumentali.
Russell, che ha fatto fortuna nel music business, è il primo a trasferirsi a Los Angeles, ormai centro nevralgico della musica americana, portando in seguito con sé una compagine di musicisti di Tulsa. Il «Sound di Tulsa» si sta facendo conoscere come un mélange raffinato di country, blues, r’n’b, gospel, folk.

CALE lo raggiunge nel ’65 e inizia a lavorare presso di lui come tecnico del suono. Intanto trova due serate fisse a settimana, con il suo Johnny Cale Trio, al prestigioso Whisky A Go-Go. Sostituisce regolarmente Johnny Rivers, ed è probabilmente per non essere confuso con lui che inizia a farsi chiamare con la sigla J.J. L’artista ha un buon successo al Whisky e altrove. Ma non è un frontman, non sa gestire il pubblico. La sua aspirazione, da uomo schivo qual è, è di essere un songwriter o un musicista di studio.
Nel ’66 presenta una canzone che colpisce tutti per le sue semplici, disadorne singolarità e bellezza, After Midnight. È più jazz e titubante dalle versioni che si conosceranno in seguito. Il testo consacra la mezzanotte come un passaggio verso gli intenti più sorprendenti. Nonostante l’apprezzamento generale, per qualche strana ragione il brano viene relegato a lato b del singolo Outside Lookin’ In e presto dimenticato. Con il passare degli anni, l’artista ce la mette tutta per sfondare. Prende parte a un gruppo che celebra i supereroi e a un progetto psichedelico, i Leathercoated Minds, autori del discreto A Trip Down The Sunset Strip.

«Troubador» è il suo secondo capolavoro dopo «Naturally», disco che lambisce il jazz

È IL 1970 e Eric Clapton è in contatto con il gruppo roots americano Delaney & Bonnie in cerca di input per il suo album solista. È proprio Delaney Bramlett a passargli il singolo Outside Lookin’ In consigliandogli di ascoltare la seconda facciata, After Midnight. In mano a Clapton il brano, suonato in chiave più hard e funky, scala le classifiche trascinando con sé l’album Eric Clapton. Subito Cale rintraccia Audie Ashworth, una vecchia conoscenza, e si reca da lui a Nashville a incidere un album, approfittando della piccola notorietà ottenuta. Naturally (’71) viene registrato a spese del produttore Ashworth, con un ensemble di vari elementi. Al contrario dell’esibizionismo della musica dell’epoca, Cale si cimenta in una versione aurorale, dagli intimi deliziosi dettagli, della musica che ha ispirato la cosiddetta «Scuola di Tulsa» e della tradizione americana in generale. La sua voce, quasi un velo che fatica a dispiegarsi, è usata in modo ritmico più che melodico; gli strumenti, dal violino al dobro, sono calibrati solo in funzione del fluire il più delicato possibile della melodia. Cale è maestro del fingerpicking. La sua chitarra ha un suono pulito, senza distorsioni, che ottiene alzando il gain e il volume e mandando in saturazione l’amplificatore. Ashworth e Cale trovano nella Shelter Records di Leon Russell una label affidabile per il disco.
L’album e i singoli ottengono buoni piazzamenti nelle chart. Occorre capitalizzare il successo, e in pochi mesi è pronto Really che non è, anche per motivi di tempo, all’altezza del predecessore. L’ispirazione è più funky. Gli ottoni, sapientemente dosati, arricchiscono il lato soul, ma certe canzoni sembrano scarti del disco precedente. Okie (’74), più orientato verso il country, è un album imperfetto, che però fa avvicinare l’artista al giro southern rock. Cale conosce i Lynyrd Skynyrd, che realizzeranno la cover della sua Call Me The Breeze sul million seller Second Helping.

LE LIRICHE sono via via più complesse dei bozzetti presenti sul primo lavoro. L’autore narra di vita, amore, racconta aforismi colmi di humor o filosofia spicciola (senza mai diventare saputo) in sincronia con la musica.
Troubadour (’76) è il secondo capolavoro di Cale dopo Naturally. Lambendo l’universo jazz, si eleva come fluttuando in un sogno, con brani meravigliosi, tra cui la funkeggiante Cocaine, di cui Eric Clapton realizzerà una cover che diverrà il brano più amato del suo repertorio.
5 (’79) che vede la partecipazione alle armonie vocali di colei che sarà la compagna di Cale per il resto della vita, Christine Lakeland, non fa che ripetere quanto già detto, e così i dischi successivi. E anche se dalla fine degli anni ’80 inizieranno dei mutamenti che porteranno nuove idee, il vero contributo dell’artista alla musica pop termina con Troubadour.
J.J. Cale continua a vivere in maniera umile e discreta, facendo le cose che gli piacciono e rifiutando persino a volte il compenso per i suoi album, dato che le cover delle sue canzoni di artisti come Clapton bastano e avanzano al suo mantenimento. Sempre circondato dall’amore degli amici e dalla crescente stima del mondo della musica, è purtroppo riservato e schivo anche nei confronti dei medici, al punto da rifiutare interventi che avrebbero potuto prolungargli la vita. Muore a 74 anni. Il miglior complimento postumo gliel’ha fatto forse Clapton: «La mia musica si basa su due artisti: Robert Johnson e J.J. Cale».

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