«Potete abbassare le telecamere… abbassatele per favore, neanche le foto, basta!» chiede in crescendo un signore sulla sessantina con i baffi ingialliti dal fumo. Siamo nella pineta a nord di Izyum, a pochi passi da uno dei vecchi cimiteri della città. La polizia scientifica ucraina sta riesumando il corpo di una donna morta da poco, le sue carni non sono deformate come quelle degli altri cadaveri posati sulla terra giallastra.

LA DONNA che riemerge dalla tomba è l’ex-moglie dell’uomo con i baffi. Lui si è messo tra i poliziotti e i giornalisti e continua a chiedere di non riprendere, fa dei grossi gesti con la mano destra mentre si frappone tra gli obiettivi dei fotografi e il sacco che quattro uomini in tuta bianca, copristivali blu e mascherina adagiano sul terreno di fianco alla fossa. La puzza è insostenibile, un cane giunto chissà da dove inizia ad abbaiare senza sosta e a fare dei piccoli balzi in avanti mostrando i denti. Ha paura, infatti scappa ogni volta che qualcuno gli passa vicino. Non lo considera nessuno se non un ragazzo che prova zittirlo e rassicurarlo sibilando “ssst”, il cane tace e lo segue per un po’ prima di ricominciare ad abbaiare quando la scientifica apre quella che sembra una coperta e svela l’ennesimo cadavere.

C’È UN FOTOGRAFO con una maschera antigas, la maggior parte dei presenti ha qualcosa davanti al naso, un poliziotto si è addirittura legato un brandello di tuta bianca che gli penzola sul mento come un paramento orientale. Mentre una quindicina di uomini scavano in tre punti diversi, gli agenti effettuano le prime rivelazioni. Una poliziotta, in particolare, è l’addetta alla misurazione delle ferite, per più di un’ora si china con una piccola squadra sui corpi trasfigurati e detta a un collega minuto con una pettorina blu con la scritta “Reparto investigativo crimini di guerra” che prende appunti.
«Sono i morti da marzo al 14 settembre» mi spiega un ufficiale della polizia locale che chiede di restare anonimo. «Al momento dovremmo averne riesumati 439, dei quali un centinaio sono già stati esaminati». Secondo il funzionario, che non riporta dati ufficiali ma i suoi colloqui diretti con la scientifica, dei corpi ispezionati circa il 10% presenta evidenti segni di violenza, gli altri sono morti di morte naturale o sono rimasti uccisi durante i bombardamenti. Sabato scorso, tuttavia, il governatore della regione di Kharkiv, Oleg Syniehubov, aveva dichiarato che «quasi tutti i corpi riesumati finora presentano segni di violenza». Ma le persone seppellite in queste tombe sono tutte morte durante la guerra? «Sì» risponde l’ufficiale, «ma non sono la totalità dei morti, molti altri sono negli 8 cimiteri comunali di Izyum; chi è stato messo qui spesso era senza parenti o conoscenti e quindi non si avevano i soldi per seppellirlo. Altre volte le famiglie non sapevano a chi rivolgersi e hanno usato queste ‘sepolture libere’, scavando le fosse». «Perciò» conclude l’uomo, «crediamo che se i russi hanno voluto nascondere qualcosa lo troveremo qui».

La terra argillosa si attacca sotto le scarpe e rende pesante camminare, ma per chi sta effettuando le riesumazioni è più facile scavare. Ci sono piccoli mucchi dovunque e, dietro i nastri bianchi e rossi della polizia, le foto delle tombe di marmo, quelle che erano qui prima della guerra, osservano questo scempio infernale. Su alcune fosse ci sono delle croci di legno con nomi e date incisi alla buona, su altre solo due pali legati o inchiodati a croce ma molte fosse erano solo una macchia di terra morbida nella pineta. Su di queste gli agenti prestano più attenzione, segnano su un registro gli oggetti personali o i dettagli (chissà quali) della vittima. Più a valle, vicino a un tendone bianco che funge da ristoro e magazzino, una distesa di sacchi bianchi e sacchi neri con delle scritte a pennarello che identificano posizione ed eventuali segni di riconoscimento come il nome sulla croce o la data del decesso.
Gli ispettori dell’Onu sono arrivati, vi stanno affiancando? Chiedo all’ufficiale. «Io non li ho visti, e qui intorno non ne ho mai sentito parlare». Una ragazzina che avrà da poco superato la maggiore età corre e inciampa su una radice per fare una foto agli addetti al trasporto dei corpi mentre in lontananza si sentono due forti colpi in uscita. Per un attimo regna il silenzio, poi i poliziotti ricominciano a scrivere e a misurare.

A POCA DISTANZA incontro Oleg, un medico militare che stende delle maglie verdi su un filo teso da una ringhiera a un chiodo sul muro di una pompa di benzina in disuso. È arrivato a Izyum 10 giorni fa e da ieri, ammette, si sta riposando un po’ e prova a fare delle «cose normali», come il bucato. È stato difficile prendere la città? «Difficile no, ma neanche facile». C’erano molti soldati russi? «Non molti, ma neanche pochi». Ma è vero che i russi sono scappati? Fa una lunga pausa, come se volesse dire «sì» ma non ci riesce. «Qui hanno perso, non potevano resistere perché erano pochi, ma non se ne sono andati. Ora sono a Lysychansk». Dima allontana un pensiero con la mano e mi dice «ma le informazioni strategiche…». Il solito copione, un soldato non si può lanciare in racconti sul contesto bellico. Tento di convincerlo che in Europa già lo sapevamo che i russi erano ripiegati verso il Lugansk ma non si fida più di sé stesso e torna a stendere i panni salutandomi sbrigativamente.

LUNGO LA STRADA da Kharkiv a Izyum diversi gruppi di sminatori ucraini con i metal detector setacciano i bordi della carreggiata o gli spartitraffico erbosi. Le corsie sono una discarica di mezzi corazzati carbonizzati e in direzione sud diverse colonne di automezzi e soldati ucraini sorridenti procedono spediti con le bandiere al vento verso i cimiteri riconquistati e quelli ancora da riconquistare.