Collaboratore dal 2017 del New York Times e vincitore di diversi World Press Photo Awards, nonché finalista al Pulitzer 2018, Ivor Prickett (Fermory, Cork, Irlanda 1983, vive e lavora a Istanbul), partendo dai Balcani per arrivare alla guerra in Ucraina, ha documentato con i suoi scatti i conflitti e la crisi umanitaria con milioni di rifugiati in Europa. In particolare alla Siria e all’Iraq, dove ha trascorso lunghi periodi tra il 2016 e il 2018 per fotografare la battaglia per sconfiggere l’Isis, è dedicato il suo libro End of the Caliphate (Steidl, 2019). In occasione del festival di Fotografia Europea 2023 è stata organizzata la personale No Home from War: Tales of Survival and Loss, prima sua mostra in Italia, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia (fino al 30 luglio, accompagnata dal libro edito da Contrasto, con testo di Arianna Di Genova).

Il tempo è un elemento determinante nella fotografia: qual è il rapporto tra la velocità dello scatto e la consapevolezza del momento stesso di cui si è testimoni?
Penso che ci sia una grande differenza tra i miei lavori iniziali e quelli più recenti, specialmente in relazione al tempo e alla velocità con la quale, in particolare, catturo un momento. All’inizio avevo il lusso di avere più tempo per lavorare e trascorrere lunghi periodi con le persone che fotografavo, quindi potevo osservare con calm a e cogliere dei momenti ancora prima dello scatto in sé che avviene in pochi secondi. Credo che ciò sia stato importante per permettermi di produrre una buona fotografia documentaria, ma anche per creare quelle competenze di base, parlando di composizione, che mi porto dietro. Mi manca quel privilegio, oggi sono impegnato in situazioni che evolvono più rapidamente, ad esempio in Ucraina o Iraq. Anche se faccio fotografie più velocemente, quel modo di osservare e dedicare del tempo alle persone dei miei primi progetti è stato determinante per definire la mia attitudine nei confronti del lavoro.

Allestimento in collezione Maramotti della mostra «No Home from War: Tales of Survival and Loss»

Il passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale ha avuto un ruolo nel suo modo di intendere la professione?
Il passaggio è stato particolarmente difficile perché ero abituato a lavorare in maniera tradizionale. Usavo il medio formato, la Bronica, sia da un punto di vista stilistico che concettuale: mi permetteva maggiore libertà nello scatto. Era un modo di fotografare più lento e contemplativo che richiedeva tanto tempo prima dello scatto. Anche il soggetto si sentiva più libero e meno minacciato dalla presenza della macchina fotografica, perché vedere attraverso lo schermo perpendicolare ha un effetto meno intrusivo. Poi, però, ho cominciato a recarmi in luoghi che definirei più da breaking news. Durante la Primavera araba ero in Egitto e in Libia e ho provato ad adattare la mia «lentezza», ma quando si è nel mezzo di una situazione pericolosa e stanno succedendo tantissime cose intorno a te è difficile anche solo caricare il rullino. Essere rapido è diventata così una necessità. Inizialmente non riuscivo a considerare seriamente le mie foto digitali. Ma nel 2012-2013 le riviste con cui collaboravo, prima del New York Times, non pagavano per le fotografie in pellicola e c’era la necessità di avere le immagini con molta più velocità.

Susan, rifugiata siriana di trentacinque anni originaria di Aleppo, sviene a causa del mal di mare e della fatica dopo aver attraversato l’Egeo dalla Turchia a Lesbo con il marito e i tre bambini. (serie “Seeking Shelter. Part II – West”, Courtesy and © Ivor Prickett

Quando si fotografano guerre, disastri, tragedie c’è anche il rischio dell’estetizzazione del dolore?
Sì, penso che il rischio sia sempre in agguato. Personalmente cerco di non estetizzare troppo né di banalizzare ciò che vedo, ma è anche vero che, come fotogiornalista, il mio lavoro è quello di cercare di raccontare storie che possano coinvolgere il pubblico visivamente: è l’unica possibilità che ho per far conoscere e capire quello che sta succedendo. La linea è sottile. Cerco di trovare l’equilibrio giusto facendo sì che la prima visione sia d’impatto e solo successivamente, a uno sguardo più attento, si colgano i dettagli. Un’immagine troppo brutale, infatti, allontanerebbe le persone. Fondamentalmente provo a maneggiare con empatia e compassione ciò che vedo.

Nel fotografare scenari di conflitto ci sono mai state situazioni che hanno avuto bisogno di una distanza temporale di elaborazione, metabolizzazione?
Credo che tanto più il momento sia frenetico e drammatico e maggiore sarà il tempo necessario, successivamente, per elaborare e comprendere il significato di ciò che si è visto accadere. In tali frangenti, anche se tutt’intorno c’è una situazione che ti sovrasta, la sfida è quella di essere in grado di mettere da parte la paura e, in un certo senso, spegnere una parte del cervello per focalizzarsi sull’accadimento ed essere in grado di continuare a fotografare. In questo modo, quando il momento clou è passato, rivedendo la fotografia, si ha la possibilità di provare a capire quello che stava succedendo. Ma se non si possiede una capacità di lavorare con lucidità, non si ottiene l’immagine fotografica che serve per comprendere quel che è successo in quel determinato momento storico.

Ivor Prickett (foto di Manuela De Leonardis)

Quando ha deciso di studiare Fotografia documentaria all’Università di South Wales a Newport, nel Regno Unito, quali erano i suoi obiettivi? Ci sono stati autori che hanno segnato il suo immaginario in maniera incisiva?
Quando sono andato a studiare a Newport, dal 2003 al 2006, avevo vent’anni e non sapevo molto di fotografia documentaria; l’unica cosa di cui ero certo era il mio desiderio di recarmi proprio lì per studiarla. Un anno prima, avevo seguito un corso a Dublino, dove avevo avuto come docenti Christine Redmond e Joe Sterling, che era stato fondamentale per la conoscenza di questo genere di fotografia, ma anche di grandi autori come Mary Ellen Mark, Larry Burrows, Don McCullin. Attraverso loro, ho capito che mi interessavano le persone come soggetti e la fotografia documentaria.

Tra le immagini della mostra alla Collezione Maramotti ce n’è una, in particolare, che ritiene più significativa delle altre?
Sono molto legato alla foto che porta il titolo Slavica Eremic nutre il suo bambino Nikola mentre suo marito Nebojsa dorme. È un’immagine che segna l’inizio della mia carriera professionale di fotografo documentario. La serie stessa di cui fa parte, Returning Home – Croatia, mi ha «avvertito» che ero finito sulla strada giusta. È stato il primo progetto importante a cui ho lavorato, nell’estate in cui mi sono diplomato, il 2006, recandomi in Croazia e Serbia e cercando fondi per realizzare questo progetto. La loro era una delle prime famiglie che ho incontrato durante quel viaggio d’esordio. Mi hanno insegnato il senso di umanità, testimoniando attraverso loro stessi la forza della fotografia documentaria. Fu un punto di svolta determinante per me, giovane fotografo appena uscito dall’università. Questa immagine è molto lontana nel tempo, lavoravo in un modo diverso, ma ancora oggi rappresenta gran parte di ciò che ho imparato da quelle persone in termine di etica e morale. Slavica aveva 21 anni ed era croata, mentre suo marito Nebojsa che è sdraiato sul letto, era serbo-croato. Si erano sposati contro la volontà delle famiglie che avevano tagliato con loro ogni rapporto e vivevano nella casa che era stata della nonna, nel piccolo villaggio di Jurga, nel sud della Croazia. Malgrado tutti i problemi, avevano una vita domestica intensa e bella. Ritengo che in una fotografia sia importante la componente estetica, ma ancora di più quella dell’empatia e della compassione. Ancora oggi, anche quando sono in una situazione difficile e ho pochissimo tempo a disposizione per stare insieme alle persone e fotografare, cerco di ricordarmi del reporter che ero allora. Pronto a cogliere con lo sguardo senza dimenticare il coinvolgimento emotivo.