Italo Calvino, testi, luoghi e persone oltre i tenaci stereotipi
Uno dei racconti più famosi delle Cosmicomiche (1965) di Italo Calvino è intitolato Un segno nello spazio; il protagonista-narratore, il metamorfico Qwfwq, aspetta con ansia di ritrovare la traccia lasciata milioni di anni prima in un settore del cosmo in cui la sua lunghissima orbita celeste l’ha infine riportato. Ma una brutta sorpresa lo attende: «In un punto che doveva proprio essere quel punto, al posto del mio segno – s’accorge con sgomento Qwfwq – c’era un fregaccio informe, un’abrasione dello spazio slabbrata e pesta. Avevo perduto tutto: il segno, il punto, quello che faceva sì che io – essendo quello di quel segno in quel punto – fossi io».
La novella è uno dei testi-chiave della poetica calviniana: vi confluiscono infatti diversi elementi fondamentali per comprendere Calvino e seguire il filo che si avvolge intorno alla sua opera. Uno di questi è la dialettica tra le costanti e le varianti, cioè tra la nostalgia delle origini e l’impulso a mutare le forme della scrittura per ritornare circolarmente (come la spirale della conchiglia) sui temi, i luoghi, le occasioni.
Un altro elemento è il tentativo, spesso frustrato, di dare un senso univoco ai segni che gli ambienti naturali o umani producono; di recuperare quella leggibilità del mondo affermata da uno degli autori più ammirati da Calvino, Galileo Galilei. Infine, il racconto anticipa l’eclissi dell’io che, in sintonia con le letture francesi di quegli anni (Barthes e il suo saggio sulla Morte dell’autore, per esempio), sarà il tema di Se una notte d’inverno un viaggiatore: «come scriverei bene se non ci fossi», dichiara in quel libro il personaggio di Silas Flannery, quasi un doppio dell’autore.
Proprio questi elementi rendono Un segno nello spazio emblematico anche per parlare della ricezione di Calvino, alimentata negli ultimi mesi dall’uscita di saggi, edizioni, articoli, in coincidenza con il centenario della nascita. Come Qfwfq, infatti, anche noi andiamo in cerca del ‘segno’ dell’autore e ne ritroviamo la presenza mutata e più folta. Tutte le sue opere sono state appena ripubblicate negli «Oscar» con le nuove copertine vivacemente illustrate dal disegnatore irlandese Jack Smyth.
Con il coordinamento di Elisabetta Risari, Mondadori ha fatto poi uscire in rapida sequenza anche volumi quasi o del tutto nuovi: edizioni aggiornate, traduzioni, inediti. Nei «Baobab» hanno visto così la luce: il rinnovato Album Calvino (che aggiunge testi e immagini all’edizione del 1995 nei «Meridiani», poi negli «Oscar» dal 2003), a cura di Luca Baranelli e di Ernesto Ferrero, (pp. 352, € 28,00); Guardare Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, a cura di Marco Belpoliti (pp. XIX-740, € 26,00); la biografia scritta da Antonio Serrano Cueto, apparsa in Spagna nel 2020, Italo Calvino Lo scrittore che voleva essere invisibile (tradotta da Giuliana Carraro e Eleonora Mogavero, pp. 504, € 24,00).
Sono usciti invece negli «Oscar Cult»: l’edizione riveduta di I libri degli altri Lettere 1947-1981 (pp. 660, € 16,50), a cura di Giovanni Tesio, con una nota di Carlo Fruttero (la prima edizione einaudiana, del 1991, era ormai introvabile); e l’importante nuova edizione del Libro dei risvolti Note introduttive, quarte di copertina e altre scritture editoriali, a cura di Luca Baranelli e Chiara Ferrero. Introduzione di Tommaso Munari (pp. XIV-429, € 15,00): di fatto un volume quasi inedito, che amplia di molto la prima silloge uscita con lo stesso titolo come strenna Einaudi fuori commercio, nel 2003.
Altri volumi sono freschi di stampa (il carteggio tra Calvino e Sciascia, L’illuminismo mio e tuo, a cura di Mario Barenghi e Paolo Squillacioti; e Il teatro dei ventagli, frutto della collaborazione dello scrittore con Toti Scialoja, sempre a cura di Barenghi) o di prossima uscita. Tra questi, è attesa la raccolta delle Lettere, che amplierà l’edizione del 2000 nei «Meridiani»; a curarla è stato ancora Baranelli, il cui contributo alla fabbrica calviniana, prima e durante quest’anno centenario, è cruciale e perfino maggiore di quanto non emerga dal già imponentissimo lavoro d’integrazione, correzione e aggiornamento dei volumi citati. (Già a settembre dello scorso anno, era apparsa a sua cura nei «Baobab» una nuova edizione delle interviste).
Per provare a stimare l’impatto che questi volumi avranno, occorre tornare all’immagine del segno nello spazio, perché nel complesso le edizioni a cui si è accennato ottengono ciò che era interdetto al protagonista delle Cosmicomiche: fanno riaffiorare un’identità, confusa sotto il groviglio informe dei segni tracciati per imitare e cancellare il modello. Contribuiscono a farci riconoscere chi era Calvino – cioè a farcene riattraversare la vita e l’opera seguendo orbite diverse – tanto la biografia di Cueto quanto soprattutto l’Album. La prima non è forse la più esauriente e originale che si possa leggere, ma ha il pregio di essere stata concepita per presentare Calvino a chi lo conosce meno di un buon lettore italiano: di qui l’esigenza di raccontare con chiarezza l’avventura dello scrittore, ripercorrendone l’intero cammino, senza cioè limitarsi alle opere più lette e famose all’estero, e superando legittimi ma parziali accostamenti (come quello, canonico nel mondo ispanofono e non solo, tra Calvino e Borges).
Inesauribile e suggestivo, oltre che fornitissimo di documenti, è l’Album, che esce arricchito anche di un inedito frammento autobiografico, aggiunto in apertura; dalla lettura e dalla visione dell’apparato fotografico si ricostruisce il ‘film’ di Calvino, la sua vita in situazione: libri e testi, certo, ma soprattutto luoghi, persone, incontri con amici, amori, altri scrittori. Tutte quelle figure sono gli ‘attori’ e le ‘attrici’ che hanno interpretato o ispirato i personaggi dell’immaginario calviniano, convocati e rivelati come scorressero nei titoli di coda. Allo stesso modo, gli spazi illustrati nelle fotografie sono quelli che tornano, in forme più o meno straniate e trasfigurate, negli ambienti delle storie calviniane: come il giardino di Villa Meridiana a Sanremo, dove Calvino crebbe con la famiglia, evocato in due trasposizioni opposte e concomitanti, nel Barone rampante e nella Speculazione edilizia.
E i fregacci informi, le abrasioni slabbrate che corrompono il segno originario? Fuori di metafora, corrispondono alle interpretazioni parziali, a volte errate o perfino malevole a cui lo scrittore è stato esposto nel tempo per via della sua stessa fortuna e centralità nel campo letterario e editoriale, italiano e internazionale. L’autore della leggerezza, lo scrittore per ragazzi, l’astuto sperimentatore, il postmoderno cosmopolita: tenaci stereotipi, che ritagliano tutt’al più un particolare nell’elaborato arazzo della mente di Calvino. Rispetto a questi partiti presi, i libri recenti indicano almeno tre correttivi.
Il primo riguarda la periodizzazione: dividere l’opera calviniana in fasi distinte (neorealista, fiabesco-allegorica, sperimentale, postmoderna) è utile sul piano storico-didattico, ma solo a patto di dare pari o maggiore rilievo alla continuità e stabilità di temi, immagini, questioni conoscitive che fanno di Calvino un autore molto fedele ai propri motivi. Non il succedersi delle mode, infatti, ma le variazioni sui medesimi temi scandiscono i quattro decenni della sua attività (anzi, se una critica volessimo proprio fargliela, non si appunterebbe sulla presunta incostanza dei modi e degli stili, ma semmai sulla ripetitività di certi movimenti concettuali).
Lo mostra bene l’antologia Guardare, in cui Belpoliti ha raccolto un gran numero di scritti calviniani sulla visualità, declinata in sette campi, tanti quante sono le parti in cui s’articola il volume: Disegno, Cinema, Fotografia, Arte, Paesaggio, Visioni, Collezioni (quest’ultima include per intero Collezione di sabbia). La costanza della dimensione visiva conferma non solo che il pensiero di Calvino funziona per immagini, ma anche che la sua idea di racconto e le storie dei suoi personaggi si basano sulla combinazione e sull’interpretazione di ‘ideogrammi’ materializzati.
Ora, questa stilizzazione non nasce tanto dal proverbiale «pathos della distanza» (la formula è di Cesare Cases), quanto da un’istanza politica; sembrano da leggere in questa chiave le considerazioni che Calvino affida agli scritti rari sul cinema, ora nella prima parte di Guardare; nel ’45, a proposito del film sovietico Compagno P., scrive per esempio che l’ingenuità notata dagli spettatori occidentali è tale solo in base a un «gretto criterio di verosimiglianza», destinato a scomparire in una nuova società in cui «le fantasie dei poeti s’innesteranno direttamente sulle fantasie popolari». Al netto dell’enfasi progressista, che Calvino in seguito dismetterà, il principio resta valido per gran parte delle sue invenzioni narrative e suggerisce come fin dall’inizio le ragioni del realismo e quelle del fiabesco siano per lui convergenti.
Il secondo correttivo è strettamente legato al precedente: Calvino non è autore di un libro o di una coppia o terna di libri che segnino un vertice o che esprimano al massimo grado poetiche, forme o ideali. Forse nessuno dei libri suoi, preso singolarmente, è all’altezza dei massimi capolavori del Novecento (ognuno metta in questa parentesi i propri titoli); d’altra parte, l’opera di pochissimi scrittori e scrittrici è riuscita altrettanto bene a rappresentare, interpretare e prefigurare la contemporaneità e le sue aporie, le sue strutture conoscitive e antropologiche.
Con Calvino inoltre si produce un fenomeno più unico che raro: partendo da un qualsiasi ‘punto’ del Novecento – opera, autore, tema, polemica – si arriva o si passa da Calvino; e viceversa: da un qualsiasi punto della sua ‘mappa’ ci si muove facilmente verso ogni zona del secolo passato. Questo appunto perché Calvino è autore non di libri, ma di un’opera complessiva, i cui elementi sono come i gangli di un sistema nervoso, o come gli anelli di una catena, distinti ma funzionali solo nel vincolo reciproco; di questa sequenza fanno parte allo stesso modo e con la stessa tenuta tanto i racconti e romanzi quanto i saggi, i pareri, i risvolti, le lettere: con i giusti strumenti a disposizione, il rilievo di quelle scritture risalta ora con evidenza storica.
Da questa considerazione dipende anche il terzo correttivo: la riflessione critica e metaletteraria di Calvino viene spesso ridotta alle Lezioni americane e ai loro valori emblematici (la tanto equivocata leggerezza, l’esattezza, e via dicendo), dimenticando le circostanze e il pubblico per i quali i memos erano stati concepiti, ed esagerandone lo statuto testamentario (certo non previsto né voluto dall’autore). Il pensiero critico e teorico di Calvino è molto più denso e molto meno conciliante sia nei saggi di Una pietra sopra, sia nelle lettere e nei pareri; la lucidità e la severità, l’ironia e l’umore sono quelli di un intellettuale che ha poco a che fare con la postura dell’olimpico contemplatore che spesso gli si attribuisce.
Nei Libri degli altri, per esempio, si intrecciano con rigore e franchezza i progetti culturali e l’ammissione dei propri fallimenti (sui Giovani del Po, il romanzo sbagliato che uscirà solo in rivista, nel marzo ’54 scrive Dario Puccini che è «tutta una cosa “di testa”, fredda, costretta in simboli inadeguati»). Il giudizio è quasi sempre netto, sia nel bene (definisce «molto impressionante» il primo scritto di Sciascia che gli capita tra le mani, Cronache scolastiche, mandandolo ad Alberto Carocci nell’ottobre del ’54); sia nel male («per me questo racconto è un esempio di come non devi scrivere», risponde fulminante a Raul Lunardi).
Ma soprattutto, in quelle lettere, oltre alla perizia e all’onestà dello scrittore e «di scrittori funzionario» si delinea un’estetica, un’opzione che si confermerà nel tempo: «questi Bildungsroman – scrive a Vittorini nel maggio del ’55 – in cui giovani senza mordente dopo un periodo di pallide incertezze credono d’essere arrivati a una concezione positiva del mondo mi paiono la cosa più antieducativa che si possa immaginare». Un libro per lui non si giudica per la vicenda esistenziale che racconta, ma in base a tre condizioni: «1) se ha un linguaggio; 2) se ha una struttura; 3) se fa vedere qualcosa» (così scrive a Carlos Alvarez, ottobre ’64).
A queste valutazioni fanno eco, sull’altro versante del lavoro editoriale, le interpretazioni e ancora prima le scelte che si desumono dai suoi risvolti: colpisce, e siamo in grado di capirlo adesso che possiamo leggere quei testi nella nuova edizione, la sintonia che Calvino rivela nei confronti dei libri in cui non emerge tanto o solo l’esperienza del personaggio a tutto tondo, quanto un sistema di relazioni, come quelle tra l’essere umano e l’ambiente (si vedano ad esempio i testi sui libri di Tournier, Barbaro, Brignetti).
In questo senso, Calvino non è stato solo un autore ecologico, ma ha anche riconosciuto, in anticipo sui tempi, una linea ecologica nei libri altrui. ‘Ecologico’, beninteso, nel senso che si ricava per esempio da una conversazione con Ferdinando Camon (nel Mestiere di scrittore, 1973, citato nell’Album): se avesse dovuto raccontare in quegli anni una storia di partigiani, dice Calvino, lo avrebbe fatto tenendo conto di «tutti i reciproci influssi di fauna e di flora e di clima e di fisiologia (…) mettendo in luce la rete di rapporti diretti e indiretti di fatti naturali e culturali e storici». Del resto, per lo scrittore, così come per il suo ultimo personaggio, il signor Palomar, «la discrepanza tra il comportamento umano e il resto dell’universo è sempre stata fonte d’angoscia» (Il fischio del merlo).
Di cosa parliamo quando parliamo di Calvino? Di chi parliamo? Le nuove edizioni suggeriscono che per fare i conti con uno scrittore come lui bisognerebbe leggerlo tutto. L’abbondanza delle uscite di questo periodo, se da un lato risente dell’horror vacui caratteristico di ogni canonica ricorrenza, dall’altro offre finalmente la materia per un vero bilancio.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento